La certificazione del trattamento dati effettuato dal responsabile del trattamento è, insieme ai codici di condotta, uno degli strumenti introdotti dal GDPR per semplificare l’applicazione della norma in contesti specifici, rendendo meno complessi i rapporti fra titolare e responsabile del trattamento. La semplificazione riguarda sia la selezione del fornitore e la sua contrattualizzazione sia le attività di controllo. Ricordiamo, infatti, che il rapporto fra titolare e responsabile del trattamento è uno degli snodi cruciali del GDPR e comporta una complessità contrattuale non semplicissima da risolvere se non ci si limita a formule generiche fatalmente destinate a non rivelarsi adeguate in caso di contenziosi o di verifiche ispettive. È giusto ricordare che il GDPR non si limita a descrivere e imporre, con l’articolo 28, i contenuti delle clausole contrattuali che devono regolare il trasferimento di responsabilità operativa dal titolare al responsabile, cioè da cliente a fornitore ma impone, al titolare, comportamenti che investono anche l’attività precontrattuale, cioè la qualificazione dei potenziali fornitori, e la fase successiva di esecuzione del contratto con gli obblighi di controllo sull’effettiva applicazione delle clausole sottoscritte. Cose che sono comprensibili se il fornitore è più piccolo del cliente ma davvero difficili da immaginare quando la situazione è rovesciata. E non solo per le PMI: è difficile pensare che un (ogni) singolo cliente possa pensare di imporre clausole contrattuali o di controllare Microsoft o SAP o Salesforce o altri attori che pure sono responsabili di trattamento per migliaia di aziende. Difficile e inutile.
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Certificazione del trattamento dati per i fornitori di servizi: i nodi
Diventa, allora, interessante approfondire il merito della questione, cioè quali sono i nodi che, se sciolti, possono facilitare lo sviluppo delle opportunità e della pratica della certificazione. A questo proposito, il nodo centrale è costituito dal meccanismo di certificazione, come lo definisce il GDPR, a cui il titolare o il responsabile devono sottoporre il trattamento o i trattamenti che intendono certificare. Da due punti di vista:
- che cosa effettivamente viene certificato con l’applicazione del meccanismo;
- chi sia il soggetto o quali siano i soggetti che lo devono predisporre o, meglio, che devono predisporre i criteri da utilizzare per la certificazione.
Ciò che è certo, invece, è che l’approvazione dei criteri di certificazione compete all’Autorità di controllo per la certificazione comune o al Comitato per il sigillo europeo. Analizziamo brevemente i due punti citati sopra. Certificare la conformità di un trattamento è un concetto che richiede di essere approfondito, soprattutto perché l’essere certificati non sottrae al rischio di essere sanzionati da parte dell’Autorità in caso di ispezione: la responsabilità è sempre in capo al titolare del trattamento e, dunque, rimangono da definire gli esatti confini della responsabilità del soggetto certificatore nei confronti del soggetto certificato. In pratica, un titolare o un responsabile che ottengono da un certificatore accreditato la certificazione di un trattamento, qualora siano sottoposti ad una ispezione e quindi sanzionati proprio relativamente a quel trattamento, possono rivalersi sul certificatore? Dove termina la responsabilità dell’uno e inizia quella dell’altro?
Definizione dei criteri di certificazione: quali difficoltà
Il tema rimane da definire anche qualora si ricorra a strumenti assicurativi per limitare l’esposizione del certificatore perché inevitabilmente l’assicuratore vorrà legare la propria prestazione a criteri oggettivi. Verosimilmente questo tema sarà chiarito con l’approvazione dei primi criteri di certificazione, che completeranno i primi meccanismi a cui sottoporre il/i trattamento/i per la certificazione. Questi criteri, però, prima di essere approvati devono essere predisposti e sottoposti al vaglio dell’Autorità. E questo ci porta al secondo punto che il testo del GDPR non chiarisce, come invece fa per i codici di condotta. Non può, infatti, essere l’Autorità di controllo a farsi carico della definizione dei criteri di certificazione per ogni singolo servizio o categoria di servizio oggetto di fornitura, come anche per ciascuna tipologia di titolare del trattamento. E anche gli organismi che normalmente si occupano di standard e certificazioni potrebbero non trovarsi a proprio agio se si passasse dalla definizione di uno schema di certificazione di un sistema di gestione generale a quello relativo alla certificazione di singoli trattamenti o gruppi di trattamenti specifici di un settore o di un ambito di attività. Quali sono, infatti, i servizi che comportano il trattamento di dati personali, che un’agenzia di marketing fornisce ai suoi clienti? Quali sono i servizi, che comportano il trattamento di dati personali, che un software house, o un IT service provider o un system integrator fornisce ai suoi clienti? È evidente che il numero è virtualmente infinito: non può essere il Garante a definire per ciascuno il meccanismo di certificazione e, quindi, i criteri di certificazione adeguati ma anche gli enti di standardizzazione e certificazione avrebbero difficoltà a intervenire con una simile granularità.
Certificazione del trattamento dati: il ruolo dei privati
Anche in analogia con l’art. 42, relativo ai codici di condotta che qualche somiglianza con il meccanismo di certificazione ce l’hanno, si arriva dunque al ruolo dei privati, cioè alle associazioni di categoria o a soggetti assimilabili, in grado di farsi carico delle specificità del proprio settore e di affrontare l’iter, complesso, necessario per definire i meccanismi e i criteri di certificazione, di concerto con un soggetto certificatore che risponda ai requisiti previsti e, magari, con un organismo di standardizzazione. Non si tratta di un impegno leggero né sul piano dei contenuti né su quello del processo di approvazione e, infine, neppure sul piano dei costi: servono competenze specifiche non solo in materia di privacy ma anche nel merito del settore specifico, capacità di coordinamento di processi che coinvolgono una pluralità di soggetti normalmente in competizione fra loro proprio sui servizi oggetto dell’analisi e, infine, comprensione dell’intero processo Se però vi è un senso nell’attività associativa nella nuova economia digitale sta proprio nell’attivazione di strumenti evoluti che riducano il costo complessivo della conformità senza comprometterne l’effettività ma anzi dando certezza ai processi sottesi e alle aziende interessate, su entrambi i fronti: il committente e il fornitore. Anche nel rapporto fra associati e associazioni è necessaria una nuova consapevolezza, visto che le priorità delle associazioni non possono differire molto da quelle indicate dagli associati.
Conclusioni
Dopo quasi tre anni di grandi sforzi per l’adeguamento al GDPR è dunque arrivato il momento di dare corpo a interventi che, siano codici di condotta o meccanismi di certificazione del trattamento dati, riconducano una parte rilevante degli obblighi di compliance di ciascuna azienda a schemi standard di garanzia per tutti e di basso costo per ciascuno, con oneri di controllo delegati a soggetti competenti in grado di garantirne l’efficacia. Non è accettabile, infatti, rinunciare a nessuno degli obiettivi: sostenibilità economica ed organizzativa della compliance da un lato ed efficacia, rispetto alle finalità della normativa, dall’altro. Standardizzare e quindi certificare i servizi “commodities”, se non incide sull’efficacia della compliance, libera energie e risorse per concentrarsi sugli aspetti davvero importanti e critici del GDPR che deve rispondere alla sfida della trasformazione digitale sempre più spinta dei servizi e delle relazioni sociali, che presenta rischi reali per i diritti e le libertà di tutti noi.