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Infowar nella Storia: perché controllare la narrativa spesso conduce alla vittoria



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Padroneggiare l’informazione è sempre stato uno strumento bellico di primo livello, prima ancora che fake news e deepfake mettessero a disposizione dei combattenti mezzi tanto insidiosi. Saper gestire la narrativa e la contro-narrativa avversaria ha, dunque, una valenza strategica: ecco perché

Pubblicato il 11 nov 2024

Federico Sangalli

Analista Geopolitico

Enrico Arcangelo Stanziale

Analista Geopolitico e Co-Fondatore Itineraria A.I.



Infowar nella Storia

Nel corso della Storia il conflitto ha sempre fatto parte delle relazioni umane e fin dagli albori padroneggiare l’informazione è stato uno strumento bellico di primo livello, ben prima che l’evoluzione tecnica mettesse a disposizione dei combattenti mezzi più sofisticati e insidiosi come quelli odierni: potremmo citare le fake news e, soprattutto, i deepfake.

Alcuni di questi casi aiuteranno a illustrare l’importanza di sapere gestire la narrativa e la contro-narrativa avversaria in una fase di competizione serrata, mettendo in luce la sua valenza strategica.

Fonte: Itineraria.

Come lo scontro tra due cittadini romani divenne battaglia di civiltà

La guerra civile che contrappose Ottaviano, il futuro Augusto, e Marco Antonio vide un massiccio e ben congegnato utilizzo di propaganda e manipolazione dell’informazione.

Il figlio adottivo di Giulio Cesare e il luogotenente veterano della campagna di Gallia e della guerra civile contro Pompeo si contendevano il controllo dei territori di Roma.

In questo scontro, che avrà un impatto immenso sul futuro della superpotenza mediterranea, il controllo dell’opinione pubblica sarà un’arma di formidabile potenza. Mentre Antonio soggiogava l’Armenia creava un sistema di controllo del territorio basato su diversi regni clienti retti da monarchi a lui fedeli.

Vista la lunghissima tradizione monarchica dei territori orientali, da secoli imbevuti di cultura ellenistica, era impossibile assimilare agli usi amministrativi occidentali le province appena conquistate.

Nonostante questo assetto amministrativo destasse qualche sospetto negli ambienti oligarchici romani, non era sufficiente a rivoltare il popolo di Roma contro Antonio, generale dalla provata abilità in battaglia, investito di notevole prestigio.

Ottaviano non disponeva dello stesso ascendente sul popolo: per volgere la situazione a suo vantaggio dovette dipingere Marco Antonio come un uomo corrotto dai “vizi orientali” ormai alieno ai morigerati usi dell’Urbe.

L’Italia doveva essere al centro dell’impianto propagandistico del futuro Augusto: il ritorno alle tradizioni agricole degli avi e la preservazione della libertà incarnata dalla Repubblica si contrapponevano all’assolutismo e alla corruzione dei costumi orientali; era necessario conservare la centralità di Roma nell’impero e non cedere alla corruzione portata da una civiltà inconciliabile con i valori della Res Publica.

Fondamentale nella costruzione dell’impalcatura propagandistica fu la figura di Gaio Cilnio Mecenate, consigliere e stretto collaboratore di Ottaviano nonché fine organizzatore culturale. Il “circolo” di Mecenate rivestì la funzione di moltiplicatore dell’eco della propaganda attraverso l’opera di illustri scrittori come Virgilio, infatti, in questo periodo ricade la stesura delle Bucoliche.

L’intensa opera di propaganda si tradusse in un giuramento richiesto alle città italiche e alle provincie occidentali nel nome di Ottaviano. Il futuro Augusto ebbe così il compito di condurre la guerra contro la regina nemica; quindi, il conflitto formalmente non ebbe la connotazione di guerra civile.

Nonostante il rifiuto di diverse città, l’opera di propaganda fu un successo perché la guerra fu condotta non contro un valente generale romano ma contro una regina di un popolo straniero, che rischiava di corrompere i secolari costumi di Roma.

La campagna portata avanti da Ottaviano riuscì così a compattare dietro di sé l’intero corpo sociale romano finalmente riunito davanti a un nemico comune dopo decenni di divisioni.

Quando la propaganda diventa realtà: i Torbidi russi

Secondo una celebre citazione del ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels, se una menzogna è ripetuta abbastanza spesso questa finisce per diventare la verità. Non sono mancati, nella storia di questo genere di imprese, casi in cui operazioni di infowar si sono rivelate tanto efficaci da determinare la realtà, e di conseguenza la Storia.

Proprio come accadde in Russia, durante il cosiddetto Periodo dei Torbidi (1598-1613). All’estinzione della dinastia Rurik, dopo la morte dello Zar Fedor I, figlio di Ivan il Terribile, il boiaro Boris Godunov – da tempo vero potere dietro il trono di Russia – si fece eleggere sovrano dalla nobiltà russa.

La morte violenta del giovane fratello di Fedor I, Dimitri, aveva dato adito a storie che attribuivano la sua dipartita allo stesso Godunov, allora reggente, e tali voci furono messe sapientemente in circolo e manovrate dai nemici del potente feudatario contro di lui.

Anche in questo caso si incoraggiò la credenza che il principe fosse vivo e prossimo al ritorno, alimentandone la leggenda nella superstiziosa popolazione russa attraverso la produzione di una lunga serie di testimonianze che ne avrebbero attestato la sopravvivenza al complotto ordito dal rivale.

L’operazione fu incoraggiata dai rivali del clan Godunov e poté contare sul sostegno delle potenze cattoliche – a cui fu promessa la conversione della Russia al cristianesimo romano – e sui loro abili apparati, in particolare i Gesuiti.

Nel 1603 fece così la sua comparsa in Polonia il primo Falso Dimitri che, incoraggiato dai cospiratori (tra i quali spiccava la potente famiglia Romanov) e dalle potenze cattoliche, marciò su Mosca e rovesciò Godunov.

La sua alleanza con gli impopolari polacchi offrì il giusto pretesto per il suo omicidio due anni più tardi, ma ormai il successo della sua impresa si rivelò il detonatore di un movimento centrifugo che dilaniò la Russia per anni.

In appena sei anni, infatti, almeno una decina di pretendenti si fecero avanti, sostenendo di essere Dimitri o altri esponenti del casato imperiale defunti, divenendo spesso il pretesto per rivolte locali o congiure della nobiltà.

La crisi imperversò fino al 1613, quando Mikhail Romanov, figlio del Patriarca ortodosso Filareto, fu scelto come nuovo Zar e pose fine alla disputa facendo sterminare i pretendenti e assicurando così ai Romanov la presa sul trono imperiale per i successivi trecento anni.

Mentre l’esempio citato non rappresenta un caso attuale di guerra cognitiva, esso mostra come e quanto un’operazione di delegittimazione attuata da attori interni o esterni possa fare presa su una società.

Soprattutto dimostra i rischi della sua intrinseca ambiguità: il caso russo dimostra infatti come tali operazioni di propaganda possano rivelarsi così efficaci da finire per prendere vita propria, rivoltandosi contro i loro creatori.

Le infowar nel Novecento

Con l’evoluzione della tecnologia e la nascita della moderna società di massa, gli strumenti a disposizione delle operazioni di guerra informativa e affini si sono grandemente evoluti, iniziando a configurarsi come una combinazione di elementi appartenenti a domini diversi, concepiti come parte di una strategia comune volta a raggiungere l’obiettivo, ovvero influenzare – senza che lui se ne avveda – il comportamento dell’avversario-bersaglio.

I grandi scontri del XX secolo hanno rappresentato dei campi di prova perfetti per questo genere di operazioni.

L’Operazione Bodyguard

Una celebre operazione prese il via durante la Seconda Guerra Mondiale, in occasione dello Sbarco in Normandia.

In ogni operazione anfibia il momento più delicato è quello della discesa a terra, quando il nemico è nella posizione di contrattaccare e spazzare via gli attaccanti prima che una testa di ponte venga consolidata. Era dunque vitale per gli Alleati indurre le forze tedesche a disperdersi lungo l’intero litorale francese, in modo di impedire una rapida concentrazione di forze nell’immediatezza dello sbarco sulle spiagge normanne.

Gli sforzi alleati – denominati collettivamente Operazione Bodyguard – presero la forma di varie sotto-operazioni.

In particolare, fu allestito un fittizio Primo Gruppo d’Armata degli Stati Uniti, al comando del generale George Patton, apparentemente predisposto per invadere la Francia all’altezza del Passo di Calais e non in Normandia: i servizi alleati imbastirono un intenso traffico radio tra unità in realtà inesistenti, affinché potesse essere intercettato dai tedeschi, e costruirono diverse copie fasulle di carri armati, artiglieria e altro materiale bellico, con lo scopo di venire fotografate dai ricognitori avversari quale prova dell’esistenza di tale esercito.

Gli inglesi manovrarono inoltre alcuni agenti doppiogiochisti perché confermassero le informazioni in possesso degli alti comandi germanici.

L’operazione, dunque, vide l’impiego di vari mezzi e strumenti (visivi, verbali, informativi) che potessero prima creare, e poi confermare –in maniera separata l’impressione che un esercito alleato si stesse radunando nell’Inghilterra sud-orientale puntando Calais.

Si venne così a creare un meccanismo psicologico che, anche dopo lo sbarco del 6 giugno 1944, indusse i comandi tedeschi a mantenere ingenti forze inutilizzate, nella convinzione che l’attacco in Normandia fosse solo un diversivo.

Quando un’operazione di guerra informativa funziona bene, non sempre ciò che vedi e senti corrisponde alla realtà.

Fonte: Itineraria.

L’Operazione Denver

Con lo scoppio della Guerra Fredda, l’impossibilità di un conflitto diretto spostò le operazioni informative su un piano più sottile, ma non per questo meno incisivo.

Tra gli innumerevoli casi, si citi soltanto l’Operazione Denver, messa in campo dai servizi del blocco comunista tra il 1983 e il 1987 e diretta a convincere l’opinione pubblica mondiale che l’epidemia di AIDS fosse in realtà un’arma batteriologica statunitense sfuggita al loro controllo.

L’obiettivo era favorire il sentimento antiamericano in molti Paesi in bilico, isolando e rendendo impopolare la collaborazione con gli Stati Uniti.

La strategia, portata avanti dagli agenti tedesco-orientali della Stasi e dai servizi bulgari con il coordinamento del KGB sovietico, produsse e distribuì falsi report scientifici che attribuivano all’AIDS un’origine artificiale.

Una ricerca stesa dallo scienziato della Germania Est Jakob Segal, per esempio, accusava Washington di aver sviluppato il virus nella base di sperimentazione per armi batteriologiche di Fort Detrick e di averlo fatto circolare tra i Paesi non-allineati.

L’operazione fu accompagnata dalle attività di mezzi d’informazione di copertura, che rilanciarono le “pubblicazioni scientifiche” accreditando l’idea che le missioni di cooperazione medica americane fossero in realtà laboratori di armi biologiche da testare in Paesi del Terzo Mondo.

L’operazione incontrò le proteste della comunità scientifica internazionale, compresa quella sovietica, che all’epoca stava cercando la collaborazione americana proprio per combattere la diffusione dell’AIDS in Unione Sovietica.

Le proteste americane e del mondo scientifico indussero l’amministrazione di Mikhail Gorbaciov a sconfessare l’operazione, ma per anni la disinformazione seguitò a ostacolare la ricerca contro l’AIDS, al punto da influenzare negativamente la risposta di interi Paesi (per esempio, il presidente sudafricano Thabo Mbeki rilanciò la falsa origine artificiale del virus per sostenere la sua politica di non-intervento contro l’epidemia).

La vicenda, pur risalendo a mezzo secolo fa, evoca con evidenza tematiche di stringente attualità nella moderna lotta al controllo e al contrasto della diffusione di informazioni false o manipolate.

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