È importante avviare una collaborazione tra intelligence e diplomazia nello stabilire le priorità di politica estera. L’obiettivo è analizzare e scovare preventivamente i “mega trend” per poter essere avvantaggiati: è quanto ha sottolineato Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri e Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, durante la prima audizione al Copasir da parte di un rappresentante del governo Meloni.
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Integrare intelligence e diplomazia
Già nelle scorse settimane Lorenzo Guerini, ai vertici del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, aveva accolto gli interventi di Elisabetta Belloni, direttrice generale del DIS, Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, Mario Parente, vertice di Aisi, Agenzia Informazioni e Sicurezza interna, Giovanni Caravelli a capo di Aise, Agenzia Informazioni e Sicurezza esterna, e Roberto Baldoni, in rappresentanza dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale da lui guidata.
Mantovano, già prima di Natale, in occasione della XV Conferenza delle Ambasciatrici e degli Ambasciatori d’Italia, aveva affrontato l’argomento, riferendosi anche all’instabilità che caratterizza il contesto internazionale attuale, che necessita che non ci siano sovrapposizioni o vuoti, ma che prevalga la collaborazione tra intelligence e diplomazia, in un’unica squadra che metta in campo le rispettive abilità per la sicurezza del nostro Paese.
Queste le sue parole: “Non viviamo nel sistema dei blocchi propri della Guerra fredda – che culturalmente era più agevole da cogliere –, e neanche nel periodo seguito alla caduta dei Muri, quello della guerra cosiddetta asimmetrica, già più impegnativo da comprendere […] Viviamo in un contesto ancora più difficile, instabile, con decine di conflitti regionali sparsi nel mondo, dall’Africa all’Asia, e persino in Europa, al cui interno l’ultima guerra pareva essere quella del Kosovo”.
Quello che intelligence e diplomazia devono fare è scambiarsi informazioni su ambienti e interlocutori esteri, in una “fusione del patrimonio informativo e valutativo delle due amministrazioni” che miri all’ “integrazione strutturale dell’intelligence nei meccanismi decisionali che determinano le priorità di politica estera, cominciando dalla fase cruciale dell’analisi”.
Ciò, in particolare, per i cosiddetti “mega trend” che permettono a chi li individua di porsi in una posizione di vantaggio.
Linee di continuità
Rispetto all’amministrazione precedente, in cui Franco Gabrielli, sottosegretario con delega ai servizi e alla cybersicurezza, e Vincenzo Colao, ministro della Transizione Digitale, erano tecnici, nel governo attuale presieduto da Giorgia Meloni questi due ruoli sono stati ricoperti da due rappresentanti di Fratelli d’Italia, Alfredo Mantovano come autorità delegata e Alessio Butti come sottosegretario con delega all’innovazione digitale.
Anche nel caso dell’elezione di Elisabetta Belloni a capo del DIS, Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS), la scelta era ricaduta su una figura non tecnica, ma diplomatica, essendo ambasciatrice, aprendo a una collaborazione, creando dei reparti separati con una demarcazione tra interesse nazionale e rotazione asset, ma sempre in costante dialogo.
Mantovano in passato si era già pronunciato sull’importanza di una collaborazione tra forze dell’ordine e agenzie private per la sicurezza e la tutela nazionale, anche sul piano cyber, così come lo stesso Gabrielli, e come quest’ultimo, ritiene che si debbano fondere in qualche modo le due dimensioni, quella interna e quella estera, della nostra intelligence per favorire un migliore intervento in caso di crisi.
In più, la globalizzazione ha portato in secondo piano l’interesse nazionale, ma la realtà dei fatti smentisce ogni giorno questa condizione.
Prossimamente sarà terminata la Pianificazione informativa 2024-2027, che conterrà i compiti assegnati dal governo al comparto, integrabili in base agli scenari che di volta in volta si prospettano.
La “diplomazia della coercizione”: l’esempio di Israele
Per avere un esempio di integrazione tra intelligence e democrazia si può fare riferimento allo Stato di Israele: costituito nel 1948, da subito risultò chiaro che un paese di un milione di abitanti in 22.000 km quadrati aveva bisogno di qualcosa in più di un esercito regolare per difendersi dai nemici.
Un anno dopo, ecco che fu creato il Mossad, Istituto per l’Intelligence e servizi speciali, una struttura civile di intelligence che agiva all’estero per la prevenzione e la repressione di attività che potevano ledere alla sicurezza nazionale israeliana. Le abilità di questa struttura di portare a termine le missioni critiche all’estero, distinte per perizia, ma anche per brutalità, hanno fatto sì che Israele fosse legittimata nell’ambito della “diplomazia della coercizione”.
Per quanto riguarda il rapporto tra Israele e Iran, la pratica degli omicidi mirati, i targeted killings, permette a Israele di minimizzare il coinvolgimento del governo e le perdite militari. Le operazioni che il Mossad conduce con il supporto dell’intelligenza artificiale, oltre al valore simbolico che assumono per l’eliminazione di vertici e leader, servono ad Israele ad indebolire le strutture di comando iraniane, che devono ricorrere, essendo state eliminate le figure al potere, a reti di sicurezza dai costi economici elevati. In questo modo, le dispute regionali sono di bassa intensità e si evitano conflitti armati tradizionali.
In merito alla lotta al terrorismo, l’obiettivo di Tel Aviv è di non ripetere scenari simili a quelli della seconda Intifada del 2000, la rivolta araba nei territori palestinesi occupati da Israele, e della guerra contro Hezbollah del 2006, scoppiata dopo che sono stati catturati due soldati israeliani.
Il Mossad ha sempre difeso le popolazioni ebraiche e difficilmente non lo farà sulla striscia di Gaza per rivendicare la potenza israeliana e gli omicidi mirati dei leader di Hezbollah creano disorientamento in un’organizzazione che basa la sua forza proprio sulla gerarchia. “In questo modo, l’impiego dei servizi segreti del Mossad permette di pareggiare la natura asimmetrica degli scontri tra Israele e i movimenti terroristici, i quali non ottengono una risposta indiscriminata – che porterebbe ad una radicalizzazione del conflitto – da parte dello Stato ebraico, bensì attacchi selettivi, catalizzatori di legittimazione per una diplomazia coercitiva che conferisce una “licenza di uccidere” in piena regola”.