La sovranità è un tema cardine del diritto internazionale e in questi ultimi mesi sono state al centro dell’interesse europeo due sue forme particolari: quella energetica e quella tecnologica. Se la prima ha una lunga storia e da tempo viene dibattuta nel Vecchio Continente, la seconda è una sorta di “new entry”, ma pare destinata a rivelarsi non meno spinosa di quella energetica.
Mettiamo subito in chiaro una cosa: non esiste una definizione assoluta e globalmente accettata di cosa sia, vuoi per la portata molto ampia del termine tecnologia, vuoi perché la stessa idea di sovranità può avere diverse interpretazioni al di fuori dell’ambito giuridico (competitività delle aziende, protezione delle proprietà intellettuali e via dicendo).
Per questa ragione ritengo opportuno precisare immediatamente che la sovranità a cui mi riferisco è quella connessa al controllo sulle tecnologie della società dell’informazione, la cui rilevanza in termini di cyber security è emersa dopo il “caso Kaspersky” di qualche mese orsono.
Il decreto “Kaspersky” e la necessità di rafforzare la nostra sovranità digitale
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Sovranità software e hardware
Fatta questa premessa la situazione attuale vede l’Europa in una posizione molto scomoda e il suo peso nella società dell’informazione è tutta legata a 500 milioni di utenti connessi e con una buona capacità di spesa.
A sostegno di questa affermazione ci sono una serie di evidenze a partire dallo stato dell’arte dell’industria “digitale”. A tal proposito consideriamo due macrocategorie: i software e servizi, e le tecnologie infrastrutturali e per le telecomunicazioni.
La prima area è caratterizzata da un dominio pressoché assoluto degli Over The Top statunitensi: Microsoft, Google, Amazon, Apple e Meta che di fatto controllano l’intero mercato del web. I numeri sono eloquenti. Le prime tre governano il 64 per cento del mercato cloud infrastrutturale. La casa di Redmond, da sola, ha il pressoché totale monopolio dei sistemi operativi per server e personal computer (circa il 90 per cento) e il pacchetto software più utilizzato al mondo (Office), e in compagnia di Google ed Apple detiene circa l’88 per cento di quello dei browser e il 92 per cento delle caselle di posta elettronica. Queste ultime, infine, si spartiscono il 91 per cento del mercato dei sistemi operativi per smartphone.
Passiamo ai fornitori delle tecnologie infrastrutturali per le telecomunicazioni. Anche in questo contesto si assiste a una concentrazione spaventosa con Huawei, Cisco, Zte, e Ericsson-Nokia che di fatto controllano il 75 per cento del mercato. La loro importanza strategica è connessa all’avvento della rete mobile 5g che se manterrà le sue promesse in termini di ampiezza di banda e bassi tempi di latenza soppianterà tutte le altre modalità di connessione.
L’Europa è in svantaggio
Non è un caso che proprio su questo terreno si sia acceso uno scontro commerciale violentissimo tra Washington e Pechino. Gli Stati Uniti vedono nei campioni cinesi Huawei e Zte, di fatto “molto vicini” allo Stato, una autentica minaccia alla sicurezza nazionale. Potremmo passare ad altre aree significative, ma la situazione non sarebbe tanto diversa.
Prendiamo i produttori di microprocessori con le statunitensi Intel e AMD che si spartiscono tutto il mercato di quelli destinati a PC e server, mentre il segmento degli smart phone è ripartito tra Qualcomm, Apple, MediaTek, Samsung e Huawei. Al di là del sostanziale predominio targato USA, minacciato in alcune aree dall’avanzare dei player cinesi, quello che appare evidente è la sostanziale assenza di realtà europee.
La preoccupazione è tale chel’Unione sta provando a rilanciare gli investimenti, ma la strada appare impervia e ancora una volta sono i numeri a fotografare la situazione. Nel 2021 i soli cinque Over The Top hanno effettuato investimenti in ricerca e sviluppo per circa 155 miliardi di dollari e il trend per il futuro e in crescita. La Cina, che punta a contendere agli Stati Uniti il primato tecnologico, sembra abbia messo sul piatto 1.4 trilioni di dollari tra il 2020 e il 2025. Per contro, secondo le stime della commissione europea, il comparto ICT europeo hanno investito circa 50 miliardi di euro.
Considerando il ritardo e il divario di capacità di spesa non è su questo fronte che il Vecchio Continente può competere.
Ci salveremo dalla colonizzazione digitale?
Resta un’ultima possibilità e i fatti sembrano dire che i 27 intendono giocarsi proprio su questa la partita. Il tema ci riporta all’inizio del nostro ragionamento ovvero che la sovranità, nella sua accezione classica, è in primo luogo una questione di diritto e di conseguenza riguarda leggi e norme.
Su questo, l’Unione Europea da ormai alcuni anni si sta ponendo come leader assoluto. A partire dal GDPR ha iniziato a costruire, anche con una certa rapidità, un impianto giuridico che non ha paragoni al mondo. Al primo pilastro si aggiungeranno l’Artificial Intelligence Act, il Digital service Act (DSA), il Digital market ACT, e il Data governance ACT. Questo, oltre a una serie di altre norme di contorno già approvate (Cybersecurity Act, NIS e via dicendo) e innumerevoli in via di definizione.
La regolamentazione imporrà a tutti gli operatori stranieri di adeguarsi a meno che non siano disposti ad abbandonare quel mercato di 500 milioni di utenti che da principio avevamo definito come il vero peso che l’Europa può mettere sul piatto della bilancia.
La vera domanda a questo punto è molto semplice: l’approccio all’idea di sovranità che ha caratterizzato gli ultimi due secoli di storia riuscirà a resistere alla sfida imposta dalla società dell’informazione che per sua stessa natura è globale? In termini più generali è possibile definire dei confini in un contesto come quello digitale in cui lo stesso terreno su cui tracciarli nella migliore delle ipotesi è incerto? Infine, se preferite porvi la questioni in termini più pragmatici: basteranno 500 milioni di consumatori a salvare l’Europa dalla colonizzazione digitale?