In attesa di un compiuto tentativo di normazione, anche a livello europeo, dell’intero settore riguardante le tecnologie derivanti dalle Blockchain e delle loro applicazioni (criptovalute, NFT, smart contract e quant’altro), non mancano i tentativi giurisprudenziali di un loro inquadramento, quantomeno sistematico, all’interno delle fattispecie giuridiche già esistenti nell’ordinamento, al fine di colmare, con lo strumento dell’interpretazione analogica, il largo vuoto legislativo che interessa l’intero ambito.
Non mancano, quindi, i casi, e anzi diventano sempre più frequenti, data la sempre più ampia adozione di tali strumenti da parte di cittadini e imprese, in cui il settore delle tecnologie a registro distribuito diviene oggetto di approfondimenti da parte della magistratura.
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Criptovalute: la sentenza della Cassazione
Al di là del tenore da tabloid molto spesso assunto dalle notizie circolanti, però, ciascuna delle decisioni giurisprudenziali osservate, proprio in quanto innovative, merita una specifica analisi, che deve essere volta a trarre concrete indicazioni sui principi applicati nella decisione stessa e, più in generale, sulla reale portata delle statuizioni in esame.
Anche il più recente arresto della seconda Sezione penale della Corte di Cassazione, la sentenza n. 27023 del 13 luglio scorso (Pres. G. Diotallevi – Rel. L. Agostinacchio), non sfugge a tale considerazione.
Come ormai noto infatti, ai giudici del Palazzaccio è stato sottoposto un caso in cui un soggetto agente, l’autore del presupposto delitto di truffa e autoriciclaggio, aveva impiegato le somme oggetto dei proventi illeciti del suo agire attraverso il loro reinvestimento in operazioni finanziarie mediante l’acquisto, con plurime disposizioni bancarie, di valute virtuali tramite Exchange.
In tal modo, quindi, secondo la magistratura di legittimità, il soggetto agente ha realizzato l’investimento di profitti illeciti in operazioni finanziarie, a fini speculativi, in maniera tale da ostacolare la tracciabilità dell’origine delittuosa del denaro, così risultando colpevole dei reati ascrittigli.
La sentenza in questione, che a ben vedere tratta delle criptovalute in maniera non difforme da qualsiasi altra “utilità” attraverso la quale il reato finanziario o contro il patrimonio può configurarsi, offre diversi spunti per gli operatori del diritto e non solo.
Innanzitutto, è interessante il principio espresso in tema di competenza territoriale, che si è ritenuto di far coincidere con il luogo ove il denaro è stato impiegato: si tratta del luogo della filiale di riferimento del conto corrente acceso dal reo e dal quale sono state impartite, seppur da remoto, le disposizioni di illecito reinvestimento, e ciò in applicazione dell’Art. 8 co.1 C.p.p..
Criptovalute e reato di autoriciclaggio
Quanto alle criptovalute, deve essere sottolineato che, secondo la Corte e diversamente da quanto affermato in senso scandalistico dagli strilloni della notizia, esse si prestano – né più né meno – ad eventuali scopi illeciti allo stesso modo del contante, così come di qualsiasi altro mezzo di pagamento o di scambio di utilità.
Il caso di specie infatti attiene alla specifica attività di reinvestimento di proventi da attività illecita, oltre che al loro occultamento, e non all’utilizzo di per sé delle criptovalute: secondo l’analisi della S.C. infatti, non è (ovviamente) il mezzo a determinare l’illiceità del comportamento, bensì l’impiego di tale mezzo da parte del soggetto agente.
La moneta virtuale, dal punto di vista dell’applicazione analogica della normativa, non può certamente essere esclusa dall’ambito degli strumenti finanziari e speculativi ai fini di una corretta lettura, nella specie, dell’Art. 648 ter co. 1 del Codice penale, ovvero del reato di autoriciclaggio, il quale individua non già un elenco tassativo delle possibili condotte, bensì delinea delle macro aree che possono formare oggetto di sua applicazione, accomunate dalla caratteristica costituita dall’impiego finalizzato al conseguimento di un utile, da parte del reo, laddove quest’ultimo vuol rendere non più riconoscibile la provenienza delittuosa delle somme oggetto di reinvenstimento.
Le criticità nell’uso delle criptovalute
Ancora, la S.C. si sofferma, sì, sul fatto che le valute virtuali possano prestarsi ad agevolare condotte illecite in ragione della possibilità dell’anonimato degli utilizzatori e delle caratteristiche intrinseche delle criptovalute stesse, alcune delle quali strutturate e concepite proprio al fine di rendere anonimo il proprietario degli asset o dei relativi wallet.
Ciononostante, tale riflessione non demonizza l’ecosistema criptovalute in sé, quanto piuttosto individua lucidamente la sussistenza di un ambito di possibilità, per un malintenzionato soggetto agente, che intenda appunto utilizzare le caratteristiche di alcune criptovalute per fini illeciti.
Tra le criticità osservate dalla stessa S.C. infine non può neppure essere taciuta la situazione emersa, se posta in relazione alla normativa antiriciclaggio nazionale ed europea di recente introduzione, laddove i giudici di legittimità hanno, anche in questo caso, rilevato come i nuovi meccanismi di controllo, pur lodevolmente introdotti, non abbiano consentito di evitare il reato contestato.
Conclusioni
Fuor di ogni metafora quindi, anche dalla lettura dell’ultimo – in serie di tempo – degli arresti giurisprudenziali sul tema, si fa sempre più chiara l’idea di come, nel bene o nel male, l’impatto generale derivante dalla sempre più ampia diffusione e adozione dei sistemi basati su registri distribuiti si trovi ancora solamente alla sua fase embrionale, e ciò probabilmente proprio in ragione dell’idea di fondo che ha pervaso il fondatore della più conosciuta di tali applicazioni.
Se è vero infatti che già nello stesso incipit del white paper di Bitcoin, laddove il suo creatore ha affermato, quale mission del progetto, che “Una versione puramente peer-to-peer di denaro elettronico permetterebbe di spedire direttamente pagamenti online da un’entità ad un’altra senza passare tramite un’istituzione finanziaria”, la sfida nei confronti del sistema istituzionale tradizionale è stata lanciata da tempo; per questo, se non altro, non pare aver molto senso dichiararsi oggi fautori o denigratori di un qualcosa che esiste da oltre un decennio, è largamente e sempre maggiormente adottato, occupa ampio spazio sui media e persino nelle aule di giustizia.