Il mercato pubblicitario online per le grandi disparità esistenti tra gli attori coinvolti soffre di diverse criticità: se le normative antitrust europee e nazionali possono rispondere ad alcune di esse, la necessità di un contesto normativo più adeguato al mondo digitale si fa sempre più sentire.
In questo senso, le iniziative della Commissione europea sul Digital Markets Act ma anche sul Digital Service Act sono un primo passo necessario verso la definizione di un mercato digitale equo e competitivo.
Allo stesso tempo la pubblicità online, sempre più personalizzata, mette a rischio la privacy. Se le regole europee sulla protezione dei dati permettono di rispondere ai vari rischi, la loro traduzione in pratica pone diverse criticità sulle quali le autorità competenti – sia nazionali che europee – dovranno intervenire, anche per fornire adeguate guide alle aziende e agli utenti.
Indice degli argomenti
Il caso di Google e l’antitrust in Europa
Un esempio utile a capire la situazione è quello relativo alla fine del 2020, quando diversi Stati statunitensi così come il Department of Justice (DOJ) hanno intentato una causa antitrust nei confronti di Google.
Una delle motivazioni riguarda un accordo, cd. “jedi blue”, tra Google e Facebook per manipolare le aste pubblicitarie a proprio vantaggio, oltre a mantenere il proprio dominio truffando gli editori più piccoli.
Secondo dati del 2019, infatti, Google detiene una quota del 48% del mercato pubblicitario online; con l’aggiunta dei 22% detenuti da Facebook i due giganti del web arrivano a controllare il 70% del mercato totale.
Negli ultimi anni le pratiche di Google sono state sanzionate più volte anche in Europa dalla Commissione europea. Poste queste premesse, soffermiamoci sui problemi del mercato pubblicitario online.
Da diversi anni la posizione di Google nel mercato pubblicitario online si trova nel mirino delle autorità antitrust europee. Così, nel 2019, la Commissione europea ha inflitto a Google una multa di 1,49 miliardi di euro per pratiche pubblicitarie abusive contrarie all’articolo 102 del trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE) – riprodotto nell’articolo 54 dell’accordo sullo Spazio economico europeo – che vieta lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale di esso.
Tra le pratiche contestate a Google figurava la richiesta agli editori di riservare lo spazio più redditizio nelle loro pagine di risultati di ricerca per i suoi annunci e la presenza di un numero minimo di annunci provenienti dal gigante del web.
Di conseguenza, i concorrenti di Google non potevano inserire i propri annunci contestuali nelle aree più visibili e più visitate delle pagine di risultati di ricerca dei siti web. In più, Google includeva anche clausole che richiedevano agli editori di richiedere il suo consenso prima di poter cambiare il modo in cui venivano visualizzati gli annunci della concorrenza.
Ciò significava in sostanza per Google controllare il tasso di visita degli annunci pop-up dei concorrenti.
Tali pratiche costituiscono un abuso di posizione dominante nel mercato dell’intermediazione della pubblicità online, in quanto impediscono la concorrenza sulla base del merito.
Se l’esercizio di una posizione dominante nel mercato non è vietato, spetta in particolare alle imprese dominanti non abusare del proprio potere di mercato restringendo la concorrenza, sia sul mercato in cui detengono una posizione dominante che su mercati separati.
Pertanto, nel caso di specie, la Commissione ha concluso che il comportamento di Google costituiva un abuso di dominio di mercato impedendo ai suoi concorrenti di competere nel mercato dell’intermediazione della pubblicità online, risultando dannoso per la concorrenza e i consumatori e ostacolando l’innovazione.
Il precedente
Questa sanzione inflitta dalla Commissione a Google non era la prima. Nel giugno 2017, la Commissione aveva imposto a Google una multa di 2,42 miliardi di euro per aver abusato della sua posizione dominante nel mercato dei motori di ricerca conferendo un vantaggio illegale al proprio servizio di comparazione dei prezzi.
Mentre, nel luglio 2018, la Commissione ha comminato un’altra multa di 4,34 miliardi di euro per aver compiuto pratiche illegali coinvolgendo dispositivi mobili Android al fine di rafforzare la posizione dominante del motore di ricerca di Google.
L’istruttoria su Google in Italia
In Italia, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato – AGCM – ha aperto un’istruttoria nei confronti di Google per abuso di posizione dominante nel mercato italiano del display advertising.
L’AGCM contesta “l’utilizzo discriminatorio dell’enorme mole di dati raccolti attraverso le proprie applicazioni, impedendo agli operatori concorrenti nei mercati della raccolta pubblicitaria online di poter competere in modo efficace.
In particolare, Google sembrerebbe aver posto in essere una condotta di discriminazione interna-esterna, rifiutandosi di fornire le chiavi di decriptazione dell’ID Google ed escludendo i pixel di tracciamento di terze parti.
Allo stesso tempo avrebbe utilizzato elementi traccianti che consentono di rendere i propri servizi di intermediazione pubblicitaria in grado di raggiungere una capacità di targhettizzazione che alcuni concorrenti altrettanto efficienti non sono in grado di replicare”.
Digital Markets Act: verso un mercato digitale equo
La necessità di un’ulteriore regolazione del mercato digitale si è concretizzata nell’UE con le proposte della Commissione europea sul Digital Markets Act (DMA) e Digital Service Act (DSA).
La proposta di regolamento DMA mira a identificare nuovi obblighi e divieti per le piattaforme e cd. gatekeeper. In particolare, questi dovranno consentire a terzi di interagire con i propri servizi, in determinate situazioni; alle aziende utenti di accedere ai dati generati dalle loro attività sulla propria piattaforma; a quelle che pubblicizzano sulla propria piattaforma gli strumenti e le informazioni necessarie a inserzionisti ed editori per eseguire la propria verifica indipendente degli annunci pubblicitari ospitati dal gatekeeper; e alle aziende utenti di promuovere la propria offerta e di stipulare contratti con i propri clienti al di fuori della stessa.
Allo stesso tempo sarà vietato dare ai propri servizi e prodotti un trattamento più favorevole in termini di classificazione rispetto a servizi e prodotti simili offerti da terzi sulla propria piattaforma; impedire ai consumatori di accedere ai servizi aziendali al di fuori delle loro piattaforme; impedire agli utenti di disinstallare software o applicazioni preinstallate, se lo desiderano.
Pertanto, tale proposta mira a consentire alle piattaforme di sfruttare appieno il loro potenziale affrontando a livello europeo le incidenze più salienti di pratiche sleali e di debole contendibilità in modo da consentire agli utenti finali e agli utenti aziendali di trarre il massimo vantaggio dall’economia delle piattaforme e l’economia digitale in generale, in un ambiente competitivo ed equo[1].
Pubblicità online e rischio privacy
Con la digitalizzazione del mercato, la pubblicità è diventata sempre più personalizzata. Mentre nel passato il targeting pubblicitario si limitava a rivolgersi ad un pubblico generalmente definito, la pubblicità comportamentale attraverso il real-time bidding (RTB), oggi, consente un’iper-personalizzazione degli annunci visualizzati.
Il RTB è un insieme di tecnologie e pratiche utilizzate nella pubblicità programmatica che consente agli inserzionisti di raggiungere un pubblico di destinazione per gli spazi pubblicitari disponibili sui siti web degli editori tramite aste dal vivo.
Le richieste di offerta, che contengono molti campi che costituiscono dati personali, sono al centro di quel complesso ecosistema. Non solo vengono utilizzati per abbinare gli utenti finali a contenuti promozionali mirati, ma consentono anche agli intermediari di creare e aumentare nel tempo profili dettagliati.
Pubblicità online, cosa dice il GDPR
Oltre ai problemi in termini di concorrenza che pone questa tecnologia, come evidenziato dall’AGCM, la memorizzazione di un’enorme quantità di dati riguardanti gli individui mette a rischio il rispetto di vari principi del GDPR, in particolare il principio di minimizzazione dei dati raccolti, limitazione del periodo di conservazione, l’obbligo di sicurezza, ma anche di trasparenza e controlli rafforzati affidati alle persone stesse.
Pertanto, è fondamentale il rispetto dei principi applicabili al trattamento. In particolare, l’articolo 5 del GDPR stabilisce che i dati personali devono essere trattati in modo lecito, equo e trasparente nei confronti dell’interessato e raccolti per scopi determinati, espliciti e legittimi.
Inoltre, gli articoli 12 a 14 del GDPR contengono disposizioni specifiche sugli obblighi di trasparenza del titolare del trattamento che deve comunque garantire che siano trasparenti per le persone fisiche le modalità con cui sono raccolti, utilizzati, consultati o altrimenti trattati dati personali che li riguardano nonché la misura in cui i dati personali sono o saranno trattati.
Diversi reclami sono stati presentati a varie Autorità Garante per la Privacy in Europa per quanto riguarda l’uso di RTB.
Inoltre, come da tempo precisato dall’EDPB (in passato Working Party 29), è difficile per i titolari del trattamento giustificare l’utilizzo di interessi legittimi come base legale per pratiche di profilazione e tracciamento intrusive per scopi di marketing o pubblicitari, ad esempio quelle che implicano il tracciamento di individui su più siti Web, posizioni, dispositivi, servizi o intermediazione di dati.
Pertanto, la base legale di questi tipi di trattamento deve necessariamente essere il consenso.
L’intervento della CNIL
Come nota la CNIL (Garante francese per la protezione dei dati), al fine di proteggere gli utenti di Internet, la normativa europea sulla protezione dei dati richiede, in linea di principio, il consenso per l’uso dei tracker sul dispositivo dell’utente.
Per questo oggi, quando un utente arriva su un sito web o un’applicazione mobile, compare un banner per consentire la configurazione dei tracker.
Tuttavia, la moltiplicazione di questi banner, seppur utile per rendere più visibile l’esistenza dei traccianti, potrebbe portare, secondo alcuni, ad una “stanchezza del consenso”: a un certo punto le richieste di consenso diventano talmente pressanti che gli utenti arrivano a considerarle un mero fastidio e smettono di prestare attenzione e prendere scelte consapevoli.
Quello che nel marketing viene chiamato il paradosso della scelta[2], si configura in qualche modo in ambito privacy nel paradosso del consenso.
Ovvero, l’abbondare di informative e richieste di consenso diventa una fonte di sofferenza psicologica per l’interessato che lo rende, in pratica, meno informato.
Non è quindi la richiesta di consenso che viene messa in discussione, ma la sua traduzione pratica che sembra porre oggi criticità sulle quali le autorità garante saranno certamente chiamate ad intervenire.
NOTE
- Proposal for a Regulation of the European Parliament and of the Council on contestable and fair markets in the digital sector (Digital Markets Act), Brussels, 15.12.2020, COM(2020) 842 final. ↑
- Barry Schwarz, The Paradox of Choice: Why More Is Less, HarperCollins Publishers, 2004. ↑