Analizzare in che misura il fenomeno del gender gap è presente nell’ecosistema privacy può servire a proporre alcune azioni minimali che, aldilà di iniziative pubbliche di più ampia portata a favore della parità, potrebbero condurre a un diverso baricentro il rapporto fra professionisti e persone di diverso genere.
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La situazione nelle entità sovranazionali europee
Se iniziamo a vedere la situazione nelle entità sovranazionali europee, a fronte di un uomo che ricopre il ruolo di Garante europeo della protezione dei dati (EDPS) troviamo al vertice dell’EDPB – organismo che promuove la cooperazione fra i Garanti nazionali – la finlandese Anu Talus affiancata da due vicepresidenti, fra cui la cipriota Irene Loizidou Nicolaidou.
Nell’ambito delle Autorità Garanti dei Paesi dello SEE, la posizione apicale è ricoperta per oltre il 50% da donne che, in numerosi casi, sono presenti nei relativi board, come nel caso della dott.ssa Cerrina Feroni vicepresidente del Garante privacy italiano. Spicca fra le Autorithy quella francese: la CNIL conta un vertice di 18 elementi suddivisi al 50% fra i due sessi, fra cui la presidente Marie-Laure Denis.
Focalizzando l’attenzione sui primi cinque Paesi per abitanti dell’UE – Germania, Francia, Italia, Spagna e Polonia, che rappresentano circa due terzi della popolazione dell’area – la percentuale di donne in posizioni apicali scende al 40%.
Da ciò si può desumere la presenza di un gender gap a livello paneuropeo in termini potenzialmente non insuperabili ancorché maggiormente presente nei Paesi più grandi.
Gender gap nell’ecosistema privacy: uno sguardo all’Italia
Volgendo lo sguardo al nostro Paese, è interessante osservare la lista delle persone che si sono candidate nel 2019 a far parte dell’Autorità Garante per la privacy. Sono complessivamente pervenute meno di 200 candidature presso ciascuna delle due Camere del Parlamento, in gran parte presentate presso entrambe.
Le candidate donne in ambo i casi sono state però ca. il 25% del totale: nell’ipotesi che abbiano partecipato le persone più attente e motivate alla privacy, questa è una percentuale che dovrebbe far riflettere e che fra le motivazioni potrebbe avere anche quello di una maggiore tendenza autocritica delle donne rispetto alle proprie potenzialità rispetto al mondo maschile, pur a parità di skills.
Informazioni più robuste, propedeutiche a eventuali interventi per spingere verso un più paritario baricentro di genere nel contesto della privacy, potrebbero rivenire da una base dati più ampia che esiste, in ogni paese, ma non è pubblica almeno nel nostro: l’elenco dei responsabili per la protezione dei dati disponibile (o DPO, Data Protection Officer) presso ciascuna della Autorità privacy nazionali.
Il solo dato reso noto, per l’Italia, è il numero di segnalazioni attive dei RPD pari, al 30 settembre, a 68.255. Si tratta di una base dati ampia in cui, al netto dei RPD esterni che siano persone giuridiche, potrebbero essere analizzate la connotazione, in funzione dei dati delle coorti di RPD dei due diversi generi, del grado di gender equality con riguardo ai RPD interni e a quelli esterni persone fisiche.
Sarebbe quindi auspicabile che, nell’ambito delle informazioni rese alla collettività, tutte le Autorità Garanti – che dovrebbero essere sensibili alla questione del gender gap perché potrebbe impattare sulla governance della privacy –, fornissero informazioni della specie: a livello europeo la base dati complessiva consentirebbe di avere una panoramica ampia del fenomeno e delle sue connotazioni territoriali.
Promuovere maggiore partecipazione delle donne nell’ecosistema privacy
Di maggior spessore l’interesse professionale delle donne alla materia desumibile dalla base sociale di Federprivacy, probabilmente l’associazione di settore con la più ampia base sociale (e a cui – per trasparenza – segnalo di aderire), le esperte femminili costituiscono una quota del 34% sul totale dei soci, con punte del 41% per la Lombardia e con sostanziale parità in Umbria.
Considerando poi le sei regioni con almeno 150 iscritti (Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Piemonte, Toscana e Veneto, in cui opera il 70% degli iscritti a Federprivacy), la quota delle donne si attesta intorno al 36%. È una quota, quest’ultima, che sottolinea una robusta ma incrementabile presenza nell’ecosistema privacy di competenze femminili.
Tenendo conto che le persone, le professioniste e i professionisti che aderiscono a Federprivacy sono rappresentative di una popolazione attenta e sensibile per cultura e professione alla privacy, dalle percentuali sopra indicate si coglie lo spunto, se non l’esigenza, di promuovere iniziative per una maggiore partecipazione delle donne nell’ecosistema privacy nazionale, con particolare attenzione alle giovani risorse.
Iniziative per la parità e, a un tempo, per rafforzare la tutela generale dei dati personali, sulla base di visuali meno uniformi che quelle del solo universo maschile.
Strumenti per realizzare una sostanziale gender equality
Ci sono vari strumenti, anche a costo prossimo allo zero, che le singole organizzazioni e associazioni possono perseguire, a prescindere da una auspicabile parallela una azione pubblica, per contribuire alla realizzazione di una sostanziale gender equality.
Strumenti di carattere generale (utilizzabili non solo in campo privacy) potrebbero essere:
- promuovere iniziative su tematiche privacy legate alla condizione femminile (da webinar a seminari e corsi universitari a partnership con organizzazioni femminili dei diversi settori produttivi);
- prevedere esperienze di lavoro per la compagine femminile di ciascuna organizzazione presso le rispettive unità organizzative privacy e/o in affiancamento al RPD;
- promuovere iniziative di ricerca sulla privacy e la presenza femminile nonché borse di studio e/o premi di tesi di laurea su tematiche privacy, rivolti alle donne;
- promuovere l’adesione, specie delle giovani neolaureate, alle associazioni del campo privacy, mettendo a disposizione delle stesse un certo plafond da parte delle organizzazioni pubbliche e private che già vi aderiscono.
Sono indicazioni minimali, certo, ma che possono aumentare la consapevolezza della materia nei contesti universitari, ove si formano le professioniste e i professionisti di domani, nonché presso le organizzazioni più avvertite e sensibili alla positività dell’inclusione e della valorizzazione di diversi punti di vista.
Non dimenticando che essere specialisti privacy implica disporre di un mix di competenze professionali di cui, specie nel caso dei RPD, dovrebbe far parte la capacità relazionale e di ascolto, l’empatia e il saper negoziare per arrivare a soluzioni praticabili (e privacy compliant): e forse questa tensione a una logica di coinvolgimento, win-win, nella cultura maschile è meno sviluppata.
Inoltre, occorre ricordare che la cronaca nera spesso, troppo spesso, viene alimentata da casi in cui la privacy delle donne viene violata con esiti a volte estremi: un approccio professionale alla privacy che non trascuri un punto di vista dal lato delle donne non potrebbe che arricchire la complessiva lotta a tali violazioni e la tutela, in generale, della privacy.
Sebbene esuli dal focus di queste note, la questione di genere meriterebbe certo di essere analizzata più in generale che solo rispetto alla dimensione professionale, anche al fine di tenerne conto nei processi di produzione normativa: un esempio (uno di pochi) è lo studio condotto in Norvegia A Gender Perspective on GDPR and Information Privacy (Hanne Sørum, Ragnhild Eg, Wanda Presthus, 2021).
Gender gap: un problema ancora irrisolto
Quello del “gender gap” è un tema da troppo tempo all’ordine del giorno e sempre più attuale. ONU, Istituzioni europee e italiane hanno nella loro agenda la questione generale della parità di genere. L’ultimo report annuale che il World Economic Forum produce sulla situazione del gender gap mostra che quest’anno l’Italia, purtroppo, ha perso 16 posizioni, piazzandosi al 79° posto nel mondo con uno score di 0,705 (dove 1 indica la piena parità).
Nel 1999 la manager Kathy Matsui coniò il termine Womenomics, poi ripreso dal The Economist, secondo cui – oltre a un principio di equità (a un diritto naturale direi) -, la maggior partecipazione delle donne al mondo del lavoro corrisponde anche a maggiore efficienza economica.
Fra le principali caratteristiche del gender gap:
- la minore presenza delle donne nelle posizioni manageriali e di vertice delle organizzazioni nonché in alcuni settori formativi e professionali (a partire dalle aree STEM);
- il gender pay gap.
Ma, più in generale, occorre sottolineare che un minore equilibrio di genere impatta negativamente sulle dinamiche culturali, sociali e organizzative, inaridendo la positività derivante dal melting pot dei diversi valoriali punti di vista.
Con “C’è ancora domani” Paola Cortellesi – nel ridare con la sua opera un valore sociale al cinema italiano come in tempi passati – ha posto alla riflessione degli spettatori le dinamiche, anche micro-sociali e antropologiche, che sono sottese a un sistema che svilisce il genere femminile e genera il gender gap. Ma, parafrasando il titolo, il domani è tempo che diventi oggi se non ieri.
Conclusioni
Un crescente equilibrio di genere riflette e favorisce un cambiamento positivo e necessario verso una maggiore inclusività e diversità nei ruoli decisionali, specialmente in un campo con connotazioni tecniche, giuridiche e organizzative come quello della protezione dei dati personali.
Incrementare la presenza di donne nelle diverse posizioni professionali che afferiscono alla privacy non solo promuoverebbe la parità di genere ma porterebbe anche a una maggiore varietà di prospettive e approcci nella gestione delle questioni relative alla privacy, un aspetto cruciale in un’epoca dominata dalla digitalizzazione e dai grandi dati.
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