La delocalizzazione dei servizi di software fa sì che un programmatore olandese possa essere assunto da una società californiana a lavorare da casa a tempo indeterminato (per utilizzare una categoria familiare al diritto italiano). Il lavoro a distanza, però, non può essere un pretesto per violare il diritto del dipendente al rispetto della sua vita privata.
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La vicenda e la sentenza
Questo il caso di un programmatore olandese, assunto nel 2019 da Chetu Inc., che fino a maggio 2022 ha lavorato serenamente per la società statunitense – o meglio, per la filiale olandese, con sede a Rijswijk.
Quest’ultima, però, ha richiesto un cambiamento nella modalità di controllo della prestazione: per essere più chiari, ha imposto al dipendente olandese di tenere la webcam accesa durante le otto ore dell’orario di lavoro.
Il dipendente si è rifiutato sostenendo che il suo operato era adeguatamente monitorato tramite i file di log: la webcam accesa avrebbe, quindi, invaso ingiustificatamente ed eccessivamente la sua privacy.
La sua argomentazione era corretta, ma Chetu inc. non l’ha presa bene e lo ha licenziato in tronco per “rifiuto di lavorare” e “insubordinazione”.
A sua volta, però, il programmatore ha chiesto giustizia al Tribunale competente (con sede a Tillburg).
Il dipendente ha vinto: dalle motivazioni si legge che “il datore di lavoro non ha chiarito a sufficienza i motivi del licenziamento. Inoltre, non vi è stata alcuna prova di un rifiuto di lavorare, né vi è stata un’istruzione ragionevole. L’istruzione di lasciare accesa la telecamera è contraria al diritto del dipendente al rispetto della sua vita privata”.
Risultato: Chetu inc. è stata condannata al versamento della somma di circa 75.000 euro tra stipendi risarcimento e spese legali.
La tesi del datore di lavoro era che la webcam non invadesse la privacy del lavoratore e che, se avesse lavorato presso gli uffici della sede operativa di Chetu inc., sarebbe stato controllato direttamente “di persona”.
Videosorveglianza e lavoro in Italia
La tesi di Chetu inc. è stata rigettata in blocco in Olanda e lo sarebbe anche in Italia.
La sorveglianza del lavoratore “di persona” non è minimamente equiparabile, sul piano fattuale e giuridico, a quella con videosorveglianza o webcam.
Nel nostro ordinamento i lavoratori che operino in contesti in cui il datore di lavoro – legittimamente – voglia installare un impianto di videosorveglianza sono tutelati o con accordo sindacale o con vigilanza della Direzione provinciale del lavoro.
Le sanzioni per chi opera al di fuori del lecito sono di natura penale – per quanto contravvenzionale – e se la videosorveglianza è imposta in un certo modo è necessaria la DPIA (ossia la valutazione di impatto privacy).
Un obbligo per il lavoratore di operare con webcam accesa se opera da casa sarebbe, quindi, quasi certamente illegittimo.
Ciò che cambia, rispetto al caso olandese, è che nelle ipotesi in cui è in vigore lo Statuto dei lavoratori il dipendente licenziato in maniera illecita ha diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro e non solo ad un risarcimento – come avviene nelle ipotesi del Jobs act.
Conclusioni
Chetu inc. ha chiuso la sede olandese poco dopo la sentenza di condanna.
È bene precisare che il lavoro da casa è regolato da normative stringenti nel territorio nazionale, ma sul piano europeo le tutele sono a macchia di leopardo.
Il fenomeno, però, è ancora fluido: in molti posti di lavoro, infatti, si sono registrati casi di dipendenti che preferivano proseguire con lo smart working.
Certamente, però, non con la webcam accesa.