Quando un Marketing Manager ed un Data Protection Officer si incontrano uno dei due torna a casa deluso, l’altro esulta. Privacy e marketing del resto non sono mai andate a braccetto perché portatrici di interessi contrapposti. Estremizzando gli interessi sono: proteggere i dati ad oltranza o usarli e diffonderli senza limiti.
Se i dati personali sono considerati il “nuovo petrolio” ci sarà un motivo.
Utilizzo dati personali per vendere perché il destinatario dell’offerta commerciale è l’utente (l’interessato in gergo data protection). I suoi dati di contatto (e-mail, numero di telefono fisso, cellulare ecc.) sono lo strumento per arrivare ad offrirgli il mio prodotto, senza utenti non vendo. Più informazioni riesco ad associare ad una anagrafica e maggior resa ha la mia offerta commerciale perché potrà essere profilata sulla base del singolo utente.
Se voglio provare a vendere un contratto telefonico, un’assicurazione e via dicendo posso provare a chiamare l’utenza del Signor Rossi presa dal data base unico (DBU). Dovrò iscrivermi presso la FUB (Fondazione Ugo Bordoni) per poter incrociare (pagando) l’utenza con il “Registro delle Opposizioni”, al fine di vedere se Rossi si è iscritto al registro e non desidera essere contattato, e se nulla osta al contatto potrò chiamarlo.
Nella maggior parte dei casi riceverò un rifiuto immediato a proseguire la conversazione perché chi riceve queste telefonate è oggetto di un numero indecifrato di telefonate commerciali. In un numero molto esiguo di casi riuscirò ad avere quello che in gergo viene definito un “contatto utile” negativo (che mi consentirà semplicemente di chiacchierare qualche secondo con Rossi). Solo in pochissimi casi riuscirò a parlarci e vendergli il prodotto.
Se desidero avere rese migliori sulla percentuale di telefonate utili posso utilizzare altre strade. Posso per esempio evitare di utilizzare un’utenza telefonica del DBU e acquisire nominativi attingendo dai data base costituiti direttamente dalle società (cosiddetti data base proprietari). Potrò per esempio contattare alcune società che mi venderanno file con migliaia di anagrafiche che presumibilmente hanno maggiori informazioni (ad esempio, nome, cognome, età, e-mail, telefono, interessi, residenza ecc.). Diamo per scontato che la costituzione di questi data base sia avvenuta acquisendo i consensi privacy necessari, fornendo l’informativa e avendo un’autorizzazione espressa a cedere questi dati a società terze. Il consenso fornito a queste società “prevale” sulla eventuale iscrizione al Registro delle Opposizioni e vive, per così dire, di vita propria.
L’utilizzo di data base proprietari migliora le performance di vendita perché le anagrafiche sono perlopiù arricchite di informazioni aggiuntive ed aggiornate.
Per comprendere quanto l’aggiornamento e gli interessi possano fare la differenza è utile il modello di business utilizzato dai cosiddetti comparatori online. Sono società che offrono la possibilità di verificare online le offerte più convenienti comparandole. Mutui, offerte ADSL, assicurazioni, conti online, tariffe gas, tariffe luce ecc. tutte, o quasi, insieme per dare la possibilità all’utente di scegliere la più vantaggiosa rispetto alle proprie esigenze.
Sembra tutto semplice, salvo poi scoprire che c’è spesso un passaggio quasi obbligato: il comparatore richiede di inserire i tuoi dati personali ed i dati di contatto per fornirti direttamente sulla e-mail o al telefono l’offerta più vantaggiosa.
Il passaggio all’informativa privacy e alla sezione di autorizzazione/consenso privacy è a volte impercettibile. Il caso vuole che nelle ore o nei giorni immediatamente successivi qualcuno ti contatti per venderti quel prodotto che cercavi sul comparatore. Un contatto “a caldo” su un utente realmente interessato a quel prodotto. Ovviamente questo genere di telemarketing ha rese nettamente superiori ai contatti effettuati su data base generici; la percentuale di vendita è superiore e richiederà pertanto meno telefonate per mettere a segno un contratto (meno costi dunque).
I comparatori infatti, avendo a disposizione tali database, utilizzano spesso tali dati per attività di telemarketing, a seguito di accordi commerciali, per conto delle società che comparano.
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Come cambierà il marketing con GDPR
I dati presenti sulle cosiddette pagine gialle non possono essere utilizzati per finalità di marketing puro, va da sé che è necessario acquisire uno specifico consenso informato.
Non è sempre facile spiegare le motivazioni di fondo per cui non posso contattare un numero di telefono che è stato pubblicato e quindi diffuso su Internet.
In genere le perplessità che vengono manifestate sono: “se una persona pubblica su Internet i suoi dati di cosa si lamenta? Peggio per lui!”.
In realtà, invece, se pubblico i dati di contatto su Internet lo faccio perché voglio vendere un mio prodotto, di certo non perché siano gli altri a vendermi i loro. Non basta che il contatto telefonico sia presente nella sezione Contattaci del sito Internet aziendale; non può essere utilizzato per finalità commerciali.
Con l’introduzione del GDPR i responsabili marketing sembrano essersene accorti; l’attenzione alle tematiche privacy è certamente maggiore ma queste regole, è bene chiarirlo, sono concetti basilari per chi si occupa di privacy e sono precedenti all’introduzione del GDPR. Il primo codice privacy è del 1996, sostituito poi dal D.lgs. 196 del 2003. In questi anni, più volte il Garante Privacy italiano ha normato con provvedimenti ad hoc le attività di marketing. Il tema è tuttavia troppo ampio per poter essere chiarito in poche righe. Sono stati tantissimi del resto anche i provvedimenti sanzionatori, in particolare verso una delle forme più aggressive di marketing: il telemarketing.
Probabilmente qualcosa cambierà con il GDPR; l’introduzione del Considerando 47 nel GDPR ne è la prova. È stato infatti inserito l’inciso che “può essere considerato legittimo interesse trattare dati personali per finalità di marketing diretto”. Cosa comporti realmente (in futuro) tale dicitura ad oggi non è dato saperlo. Non si può certamente affermare che venga meno il requisito del consenso come requisito essenziale per effettuare i contatti commerciali, ciò almeno fino a quando resterà in vigore la direttiva 2002/58/CE (cosiddetta direttiva e-Privacy) che disciplina specificamente il trattamento dei dati personali nel settore delle comunicazioni elettroniche. Serviranno dunque altri mesi per comprenderne la reale portata di tale affermazione.
Privacy e marketing: che fine farà il telemarketing
Il caso Iliad in Italia ci sta dimostrando che il telemarketing non rappresenta necessariamente uno strumento fondamentale per vendere. Iliad, operatore di telefonia mobile, in pochissimi mesi ha macinato numeri da capogiro riuscendo ad attirare milioni di nuovi clienti senza telemarketing o venditori terzi. Dispone dei soli punti vendita e dei propri call center per la sola assistenza clienti; “non facciamo chiamate per persuadere le persone a cambiare operatore” ha dichiarato il suo amministratore delegato. Un modello di business fondato prevalentemente sulla pubblicità, i costi e il passaparola. Tale modello consente di abbassare i costi connessi alle vendite.
Stanno dunque cambiando gli approcci e probabilmente il marketing in futuro transiterà da altri canali; anche l’e-mail marketing andrà scomparendo. Diminuendo l’utilizzo delle e-mail come mezzo di comunicazione saranno utilizzati altri veicoli. SMS pubblicitari quasi non se ne vedono più; FAX marketing ormai del tutto scomparsa.
Aumentano, invece, il numero delle app e i messaggi pubblicitari ad essi associati. Il banner pubblicitario sopravvive ancora e con esso sopravvive la lead generation (azione di marketing che consente di generare una lista di possibili clienti interessati ai prodotti o servizi offerti da un’azienda).
Cambierà lo strumento ma resterà fondamentale il contatto con l’acquirente finale e per convincerlo il dato personale resterà sempre il perno centrale.