Facebook si trova di nuovo coinvolto nella cronaca giudiziaria, anche se questa volta si tratta di un caso italiano e piuttosto peculiare: facciamo riferimento all’ordinanza del Tribunale di Bologna del 10 marzo 2021, che ha imposto al social di pagare complessivamente 14.000 euro di risarcimento a un soggetto privato per aver cancellato il suo profilo e tutti i dati ad esso relativi.
Ironia della sorte, se pensiamo che negli ultimi anni il social è stato sotto i riflettori per violazioni della disciplina a tutela dei dati personali dei soggetti a causa della raccolta massiccia di informazioni sui suoi utenti.
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Perché cancellare i dati non è sempre un’azione positiva
È interessante partire proprio da un aspetto che attiene alla tutela dei dati personali: ai sensi del Regolamento europeo 2016/679 (il c.d. GDPR) e, in particolare, in base all’articolo 5, i titolari del trattamento (come Facebook, in questo caso) devono rispettare il principio di limitazione della conservazione, che comporta un obbligo di cancellare i dati personali dei soggetti non appena le finalità del trattamento siano state raggiunte e la detenzione di queste informazioni non sia più necessaria.
Governance dell’identità digitale: la nuova frontiera della sicurezza
Nel caso dei social network, i dati degli utenti vengono trattati principalmente per adempiere all’accordo stretto con questi nel momento in cui hanno aperto un account sulla piattaforma; chiuso il profilo, quindi, questo tipo di trattamento cessa e bisogna valutare se la conservazione dei dati sia effettivamente imposta da altre attività legittime e rispettose della normativa privacy.
Cosa dice il GDPR
L’eliminazione dell’account, attenzione, non comporterebbe di per sé un obbligo di cancellazione dei dati in capo al titolare: potrebbero esserci motivi diversi che giustifichino il trattamento di quelle informazioni, come la necessità di garantire l’esercizio di alcuni diritti.
Pensiamo, ad esempio, al diritto alla portabilità sancito dall’articolo 20 del GDPR, che consente all’interessato di ottenere dal titolare tutti i propri dati che aveva fornito a quest’ultimo, in un formato strutturato, di uso comune e leggibile da dispositivo elettronico.
L’introduzione di questo elemento nel Regolamento è stata frutto proprio di un’attenta analisi, da parte del legislatore europeo, dei rapporti sempre più importanti che i soggetti instaurano con i fornitori di servizi online, nel contesto dei quali si vengono spesso a formare degli archivi di informazioni che hanno un valore per l’interessato; se questi dati non fossero accessibili da parte del soggetto cui si riferiscono e, eventualmente, trasferibili a un altro titolare, si verrebbe a creare una situazione di “lock-in”, un intrappolamento dell’utente nel rapporto col provider, che non verrà cessato, anche se ve ne fossero ragioni, per evitare di perdere tutte le informazioni accumulate nel tempo su quella piattaforma.
Un altro diritto sancito dal GDPR è quello alla limitazione del trattamento, che deve essere consentita all’interessato in alcune ipotesi elencate nell’articolo 18 del Regolamento; tra queste, troviamo i casi in cui “il trattamento è illecito e l’interessato si oppone alla cancellazione dei dati personali e chiede invece che ne sia limitato l’utilizzo” e quelli in cui “benché il titolare del trattamento non ne abbia più bisogno ai fini del trattamento, i dati personali sono necessari all’interessato per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria” (lettere b e c del primo paragrafo dell’articolo).
Entrambe le ipotesi potrebbero verificarsi nel contesto della chiusura di un account su un social network; dunque, se il titolare cancellasse immediatamente i dati relativi al profilo dell’utente, impedirebbe in tal modo l’esercizio di uno dei diritti di cui questo gode ai sensi della normativa europea.
Il caso bolognese
Nel caso deciso dal Tribunale di Bologna, un avvocato appassionato di collezionismo e militaria ha perso, da un giorno all’altro, una decina d’anni di contenuti, informazioni e relazioni intessute tramite il proprio profilo Facebook e alcune pagine ad esso collegate, quando il social network ha cancellato arbitrariamente il suo account e tutti i dati a esso inerenti.
Oltretutto, l’eliminazione delle informazioni ha impedito di ricostruire i motivi scatenanti di tale decisione del gestore della piattaforma. In questo modo, l’interessato ha subito un danno quantificato dal Tribunale in 10.000 euro per il profilo personale e 2.000 euro per ciascuna pagina cancellata.
L’importanza dell’identità digitale
L’ordinanza del Tribunale di Bologna mette in luce l’importanza crescente dell’identità digitale degli individui. Attraverso internet e, in particolare, i social network, è oggi possibile intessere una rete di relazioni e creare una sorta di vita parallela nel mondo online, al di là di limiti fisici e spazio-temporali.
Questo ha creato negli ultimi anni tutta una serie di dibattiti sui problemi legati alla corrispondenza o difformità tra realtà e immagine sul web. Fino a che punto la tutela del profilo creato da un soggetto su internet può essere ricondotta a quella tradizionalmente garantita all’identità personale? Il giudice bolognese ha identificato, in questo caso, un danno anche sotto questo punto di vista, in quanto l’identità personale “come noto viene oggi costruita e rinforzata anche sulle reti sociali” (dall’ordinanza).
Si tratta, però, non tanto di proteggere l’identità digitale del soggetto, ma le ricadute che questa ha sulla sua vita di relazione.
Il problema causato dalla cancellazione del profilo è stata la perdita di tutti i contatti intessuti nel corso degli anni tramite la piattaforma, oltre che dei vari contenuti scambiati, dei dibattiti aperti, dei dialoghi intrattenuti.
Identità digitale e libertà di espressione
Un altro elemento che è stato parecchio discusso negli ultimi mesi è la tutela della libertà di manifestare il proprio pensiero attraverso i social network.
La questione è emersa nel caso della chiusura di vari profili dell’ex Presidente USA Donald Trump, ma è in un certo senso richiamata anche dall’ordinanza bolognese.
Oggi è innegabile che impedire a un soggetto di frequentare alcuni social network configuri una limitazione importante alla sua possibilità di coltivare relazioni interpersonali, a maggior ragione poi nel contesto pandemico che ci impone un tendenziale isolamento fisico.
In certi casi non è più nemmeno possibile una vera e propria scelta: se si è esclusi dal social frequentato dal 99% della popolazione, non si può dire che poter aprire un profilo su un altro sia una valida alternativa.
Questi spazi virtuali sono al momento controllati da pochi attori privati, che ne disciplinano termini e condizioni in modo da evitare che tramite il loro utilizzo vengano violati principi fondamentali universalmente condivisi e regole di buon costume.
Conclusione
C’è da chiedersi, tuttavia, se questi meccanismi siano ancora sufficienti e adatti alla realtà del mondo contemporaneo, dove le relazioni instaurate online, come insegna anche l’ordinanza del Tribunale di Bologna, hanno assunto un ruolo essenziale nella quotidianità della maggior parte degli individui e non sono, ormai, facilmente sostituibili.
Impedire l’accesso a uno spazio sociale in rete può quindi oggi cagionare danni piuttosto ingenti a un individuo, tanto da legittimarne la richiesta di risarcimento.