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Videosorveglianza a lavoro, dopo la sentenza della Cassazione: norme e principi per un impianto a norma

Per installare un sistema di videosorveglianza a lavoro serve l’accordo sindacale o un provvedimento autorizzativo dell’Ispettorato del Lavoro: è quanto chiarito da una recente sentenza della Cassazione che fa seguito ad un’altra sentenza della Corte di Strasburgo secondo cui i controlli devono essere proporzionati e non eccedenti. Facciamo luce su norme e principi per un impianto a norma

Pubblicato il 07 Feb 2020

Giuseppe Tulli

Data Protection Consultant DPO Uni

Videosorveglianza a lavoro norme e principi

Non è sufficiente un accordo scritto tra le parti per installare le apparecchiature di videosorveglianza da impiegare esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e la tutela del patrimonio aziendale.

Questo è quanto chiarisce la Suprema Corte di Cassazione nella sentenza dello scorso novembre (sentenza n. 1733/2020) che dichiara illegittima e sanziona l’installazione in mancanza di accordo o del provvedimento autorizzativo.

Dalla videosorveglianza deriverebbe, infatti, la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori; pertanto, secondo quanto prescritto dall’art. 4 L. n. 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori), l’installazione deve essere sempre preceduta da una forma di codeterminazione tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali dei lavoratori.

In caso di mancata concertazione/accordo sindacale, il datore di lavoro deve far precedere l’installazione dalla richiesta di un provvedimento autorizzativo da parte dell’Ispettorato del Lavoro (INL o della Direzione territoriale del lavoro) che faccia luogo del mancato accordo con le rappresentanze sindacali dei lavoratori. In mancanza dell’accordo o del provvedimento alternativo di autorizzazione, l’installazione dell’apparecchiatura è illegittima e penalmente sanzionata[1].

Videosorveglianza a lavoro: il caso

La procedura affida l’assetto della regolamentazione degli interessi del lavoratore alle rappresentanze sindacali o, in ultima analisi, ad un organo pubblico, con esclusione della possibilità che i lavoratori, uti singuli, possano autonomamente provvedere al riguardo.

I lavoratori sono da più parti definiti come soggetti deboli nel rapporto di lavoro subordinato e, di fatto, viene rappresentata una diseguaglianza in virtù di della forza economico-sociale dell’imprenditore, rispetto a quella del lavoratore.

L’accordo che ha preceduto l’istallazione è, nel caso di specie, avvenuto in difetto delle condizioni di cui all’art. 4, I. n. 300 del 1970 ed è per tale motivo che non costituisce esimente della responsabilità penale, «dovendosi al riguardo richiamare il prevalente e più recente indirizzo di legittimità che ritiene che la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 4 in esame sia integrata anche quando, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali e di provvedimento autorizzativo dell’autorità amministrativa, la stessa sia stata preventivamente autorizzata per iscritto da tutti i dipendenti».

A causa della sproporzione esistente non basterebbe al datore di lavoro fare firmare al lavoratore, all’atto dell’assunzione, una dichiarazione con cui accetta l’introduzione di qualsiasi tecnologia di controllo per ottenere un consenso viziato, perché ritenuto dal lavoratore stesso, a torto o a ragione, in qualche modo condizionante l’assunzione.

Il consenso del lavoratore all’installazione di un’apparecchiatura di videosorveglianza, in qualsiasi forma prestato (anche scritta, come nel caso di specie), non vale a scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato i predetti impianti in violazione delle prescrizioni dettate dalla fattispecie incriminatrice (motivo in base al quale è stato giudicato infondato il ricorso del datore di lavoro).

Videosorveglianza a lavoro: le norme

Il Garante per la protezione dei dati ha definito in più casi illecito il trattamento dei dati personali mediante il sistema di videosorveglianza, in assenza del rispetto delle garanzie di cui all’art. 4, comma 2, Stat. lav. e nonostante la sussistenza del consenso dei lavoratori. Questo è stato anche chiarito nella Relazione per l’anno 2013, pubblicata nel 2014 e ancora in quella per l’anno 2018, pubblicata nel 2019[2].

Il tema dell’istallazione è regolato non solo dallo Statuto dei lavoratori, nonché dai principi e norme introdotti attraverso l’interpretazione prevalente giuslavoristica in tema di controllo, ma dalla disciplina del trattamento dei dati personali nonché dai provvedimenti del Garante oggi convivente, nei limiti di compatibilità, con il Regolamento Europeo e con il Codice Privacy novellato (incluso il Provvedimento in materia di videosorveglianza del 8 aprile 2010)[3].

Da ultimo, si considerino le linee guida n. 3/2019 del Comitato Europeo per la protezione dei dati, adottate il 10 luglio 2019 che forniscono chiarimenti e suggerimenti operativi.

Uno dei temi centrali è quello inerente alla sicurezza del datore di lavoro. Il titolare, infatti, rappresenta delle esigenze datoriali che pure ritenute sussistenti, non possono, di per sé sole, legittimare la presenza di tali dispositivi sul posto di lavoro in assenza delle garanzie che costituiscono la condizione di liceità, così come chiarito dal Garante (Provv. Garante 9 maggio 2018, n. 227) e dalla Corte di Cassazione (Cass. 84/5902).

L’osservanza di queste disposizioni non può essere neanche soddisfatta dalla mera “acquiescenza dei lavoratori o dal fatto che questi siano, al corrente dell’esistenza del sistema” di videosorveglianza (in assenza delle suddette garanzie)[4].

La Circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, nr. 5 del 19 Febbraio 2018 chiarisce, inoltre, che per perseguire la tutela del patrimonio aziendale non è sufficiente la generica autorizzazione resa dal titolare in fase di istruttoria: perciò l’“ampia nozione di patrimonio” dovrebbe necessariamente essere declinata per non vanificare le finalità poste in essere dalla normativa.

Richiama perciò i principi di legittimità e determinatezza del fine perseguito, proporzionalità, correttezza e non eccedenza laddove le installazioni dei dispositivi operino in presenza dei lavoratori[5].

Entra nel merito del monitoraggio e la necessità di rendere “residuali i controlli più invasivi, legittimandoli solo a fronte della rilevazione di specifiche anomalie e comunque all’esito dell’esperimento di misure preventive meno limitative dei diritti dei lavoratori”[6].

Privacy dei lavoratori ed esigenze datoriali: il giusto equilibrio

Equilibro tra la privacy del dipendete e le esigenze datoriali viene richiamato anche nella vicenda sottoposta alla Corte di Strasburgo (sentenza 17 ottobre 2019).

La vicenda riguarda alcuni ex dipendenti di un supermercato nei pressi di Barcellona licenziati a seguito dei furti di merce e favoreggiamento. Il datore di lavoro dopo aver subito la perdita complessiva di 82mila euro ed aver posizionato le telecamere nascoste ha licenziato alcuni dipendenti attribuendo loro gli illeciti filmati di nascosto.

Questi ultimi si sono rivolti alla Corte europea dei diritti dell’uomo per una presunta violazione della privacy da parte del datore di lavoro, tuttavia l’installazione è stata giudicata lecita.

Con un commento positivo, Antonello Soro, Presidente del Garante per la privacy la sorveglianza, ha accolto il verdetto favorevole al datore di lavoro su cui si è pronunciata la CEDU.

La sorveglianza occulta – precisa il Garante – non può però diventare prassi ordinaria: la «sentenza della Grande Camera della Corte di Strasburgo se da una parte giustifica, nel caso di specie, le telecamere nascoste, dall’altra conferma però il principio di proporzionalità come requisito essenziale di legittimazione dei controlli in ambito lavorativo».

I controlli devono essere proporzionati e non eccedenti. L’installazione di telecamere nascoste sul luogo di lavoro è stata infatti ritenuta ammissibile dalla Corte solo perché ricorrevano determinati presupposti: vi erano fondati e ragionevoli sospetti di furti commessi dai lavoratori ai danni del patrimonio aziendale, l’area oggetto di ripresa (peraltro aperta al pubblico) era alquanto circoscritta, le videocamere erano state in funzione per un periodo temporale limitato, non era possibile ricorrere a mezzi alternativi e le immagini captate erano state utilizzate soltanto a fini di prova dei furti commessi.

La videosorveglianza occulta è, dunque, ammessa solo in quanto extrema ratio, a fronte di “gravi illeciti” e con modalità spazio-temporali tali da limitare al massimo l’incidenza del controllo sul lavoratore[7].

Videosorveglianza a lavoro: i requisiti essenziali

Non può dunque diventare una prassi ordinaria. Il requisito essenziale perché i controlli sul lavoro, anche quelli difensivi, siano legittimi resta dunque, per la Corte, la loro rigorosa proporzionalità e non eccedenza: capisaldi della disciplina di protezione dati la cui “funzione sociale” si conferma, anche sotto questo profilo, sempre più centrale perché capace di coniugare dignità e iniziativa economica, libertà e tecnica, garanzie e doveri”.

Le condizioni dell’esercizio del controllo difensivo del datore di lavoro sono in linea con il c.d. bilanciamento dei diritti. Si tratta di una circostanza ben precisa: un rilevante furto perpetrato per 5 mesi, di una cornice di garanzia ben definita in cui la telecamera è stata installata ed utilizzata per soli 10 giorni e con un accesso limitato a pochi incaricati. Un uso per finalità difensive a fronte di circostanze ben precise. Il ricorso ai controllo difensivi da parte del datore sono considerati leciti, ma esclusivamente in presenza di meccanismi di controllo e bilanciamento previsti per legge.

La prassi ordinaria di controllo per la difesa del patrimonio è però considerata legittima quando è strettamente funzionale all’interesse dichiarato e precisato nel provvedimento autorizzativo.

NOTE

  1. Si citano inoltre le sentenze: Sez. 3, n. 38882 del 10/4/2018, D., Rv. 274195; Sez. 3, n. 22148 del 31/01/2017, Zamponi, RV. 270507.
  2. Il Garante per la protezione dei dati personali richiama nella Relazione 2018 la giurisprudenza CEDU: il rispetto della “vita privata” deve essere esteso «ai luoghi di lavoro pubblici che, dunque, la videosorveglianza può essere giustificata solo nel rispetto delle garanzie della legge nazionale applicabile, in mancanza delle quali costituisce un’interferenza illecita nella vita privata del dipendente. Nell’ordinamento italiano, il rispetto della disciplina di protezione dei dati, nell’ambito del rapporto di lavoro, si sostanzia anche nell’osservanza della rilevate disciplina di settore in materia di controlli a distanza dei dipendenti». Richiama principalmente l’art. 4, l. n. 300/1970 – così come novellato dall’art. 23 comma 1, del D. Lgs. 151 del 14 settembre 2015 (Job Act) – e l’art. 88, par. 2, del GDPR. Anche D. Lgs. 151 del 14 settembre 2015 (Job Act).
  3. D.lgs. 196/2003 (Codice Privacy) e D.lgs. 101/2018.
  4. Cfr. Cass. III sez. Pen., n. 22148/2017.
  5. La Circolare ha fornito indicazioni operative su diverse problematiche relative all’installazione e l’utilizzo degli impianti audiovisivi e degli strumenti di controllo sul luogo di lavoro. Le questioni principali trattate: istruttoria dell’istanza, la tutela del patrimonio aziendale in conformità coi principi di legittimità e determinatezza del fine perseguito come affermato dal Garante e dettami della Cassazione, telecamere posizionamento ed inquadratura, dati biometrici per l’utilizzo dei dispositive.
  6. “Del resto, anche secondo la Corte di Cassazione, la sussistenza dei presupposti legittimanti la tutela del patrimonio aziendale mediante le visite personali di controllo, va valutata in relazione ai mezzi tecnici e legali alternativi attuabili, all’intrinseca qualità delle cose da tutelare, alla possibilità per il datore di lavoro di prevenire ammanchi attraverso l’adozione di misure alternative (Cass. sent. n. 84/5902)”.
  7. Intervista ad Antonello Soro – Rai Radio, 18 ottobre 2019.

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