La videosorveglianza sui luoghi di lavoro e di conseguenza il trattamento di dati personali sotto forma di immagini relative a lavoratori nell’ambito del luogo in cui viene resa la prestazione lavorativa è senz’altro uno dei più spinosi nei quali il DPO, il Privacy Officer, il consulente esterno o lo stesso titolare del trattamento possano imbattersi.
Ciò deriva dal fatto che, al fine di implementare correttamente un sistema di videosorveglianza sui luoghi di lavoro, occorre tener presente, integrandole, due diverse discipline normative. Da una parte vi è quella scaturente dalla normativa vigente in materia di privacy e, dall’altra, le previsioni normative in materia giuslavoristica.
Entrambe le discipline fanno discendere la liceità di questo particolare trattamento (e, dunque, dell’installazione del sistema di videoripresa) da alcune condizioni tassativamente elencate nelle norme di riferimento.
Indice degli argomenti
Videosorveglianza sui luoghi del lavoro: cosa dice la norma
Per quanto concerne il diritto del lavoro, la Legge 300/1970, all’art. 4, comma 1, riconosce come lecito l’impiego di impianti audiovisivi solo laddove vi siano:
- esigenze organizzative e produttive;
- esigenze di tutela della sicurezza del lavoro;
- esigenze di tutela del patrimonio aziendale.
Della sussistenza di una o più di queste circostanze legittimanti occorre, ovviamente, dare puntuale e concreto riscontro, a maggior ragione a seguito dell’emanazione della Circ. 5/2018 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, nell’istanza autorizzativa eventualmente proposta alla DTL competente o nel verbale di accordo con le RSA/RSU laddove si raggiunga l’accordo con queste ultime.
La sussistenza effettiva di una delle condizioni sopra elencate e la coerenza dell’impianto con la finalità dichiarata costituiscono, infatti, dopo la citata circolare, il principale elemento di valutazione ai fini dell’autorizzabilità dell’installazione dell’impianto.
La normativa in materia di diritto del lavoro, tuttavia, richiama esplicitamente quella sulla privacy il che, dal maggio 2018, significa che occorre riferirsi al combinato disposto delle norme pertinenti di cui al Regolamento (UE) 2016/679, del D.lgs. 196/2003 (Titolo VIII) così come novellato dal D.lgs. 101/2018 e, in generale, da tutto il diritto applicabile e particolarmente dai provvedimenti del Garante per la protezione dei dati personali anche antecedenti l’entrata in vigore del GDPR, in applicazione della previsione di cui all’art. 22, comma 4, del citato D. Lgs 101/2018.
In materia, infatti, il Garante si è espresso con il Provvedimento generale dell’8 aprile 2010, il quale sostituisce un precedente Provvedimento del 29 aprile 2004.
I criteri per la liceità del trattamento desumibili dalle norme e dai provvedimenti citati sono numerosi.
In sintesi, il sistema, nella sua concezione e nelle caratteristiche tecniche, deve rispettare i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza rispetto alle finalità dichiarate (Provv. Gen. cit.).
Occorrerà cioè dar conto del fatto che la finalità dichiarata non possa essere conseguita con mezzi meno invasivi. Ad esempio, il controllo degli accessi entro uno specifico perimetro dovrà essere valutato, dando riscontro delle eventuali ragioni di inidoneità, prima dell’installazione di un impianto di videoripresa degli stessi luoghi, laddove si voglia garantire l’integrità di macchinari di altissimo valore o la protezione documenti riservati.
L’informativa per i sistemi di videosorveglianza sui luoghi di lavoro
Fondamentale, poi, sarà la puntuale informazione dei lavoratori del trattamento mediante apposite informative (complete ma anche brevi, collocate prima delle aree di ripresa e ben visibili) nonché la corretta definizione e la formale nomina (formale autorizzazione o nomina a responsabili del trattamento/AdS) dei soggetti autorizzati ad accedere alle eventuali immagini registrate, così come la previsione di un sistema abilitato a registrare i log di accesso degli autorizzati, in modo che si possa garantire che gli accessi da parte del datore di lavoro avvengano solo in caso di effettiva verificazione delle circostanze legittimanti.
Sarà inoltre necessario dimostrare che le specifiche tecniche dell’impianto (aree di ripresa, periodo di conservazione delle immagini, collocazione di monitor e DVR/NVR) non eccedano le finalità dichiarate e garantiscano la sicurezza del trattamento, anche avverso rischi di data breach (ad esempio, memorie criptate e separate dal sistema aziendale) e consentano, laddove possibile in relazione alle finalità, l’esercizio dei diritti degli interessati previsti dal Regolamento.
Sostanzialmente, occorrerà ad esempio valutare correttamente l’orientamento delle telecamere, l’ampiezza dell’angolo di ripresa, i locali soggetti a ripresa. Occorrerà inoltre valutare correttamente la collocazione dei monitor, che dovranno essere posti in luoghi ad accesso limitato alle sole persone formalmente autorizzate così come i rack contenenti i DVR/NVR.
I criteri per la corretta conservazione dei dati
Non si dovrà dimenticare di impostare il sistema in modo tale che la conservazione delle immagini non superi le 24 ore, a meno che non vi siano ragioni concrete e dimostrabili che giustifichino che i tempi debbano essere prolungati oltre tale termine e comunque, salvi casi estremamente eccezionali e previa DPIA (il Garante, nel Provvedimento citato, parlava di verifica preliminare), non oltre i 7 giorni.
Proprio in materia di valutazione di impatto privacy (DPIA), occorre segnalare che, in realtà, a prescindere da quanto previsto laddove si ritenga di superare la settimana nella conservazione dei dati, ne è fortemente consigliata l’esecuzione, salvo casi di palese assenza di rischio elevato.
Infatti, nell’”elenco delle tipologie di trattamenti (…) da sottoporre a valutazione di impatto” di cui all’allegato 1 al Provvedimento n. 467 dell’11 ottobre 2018, il Garante per la protezione dei dati personali ha incluso, al punto 5, “i trattamenti effettuati nell’ambito del rapporto di lavoro mediante sistemi tecnologici (anche con riguardo ai sistemi di videosorveglianza e geolocalizzazione)”. In tale punto, il Garante fa riferimento all’Opinion WP 248 rev.01 dell’Ex WP29 (oggi EDPB) ai criteri 3, 7, 8. Il criterio 7, in particolare, individua un indicatore di rischio elevato intrinseco nel semplice fatto che il trattamento riguardi lavoratori, in quanto attinente a “dati relativi a interessati vulnerabili” stante il fisiologico stato di soggezione al quale sono soggetti i lavoratori, tale da indurli a non poter liberamente opporsi al trattamento di dati personali loro riguardanti.
La base giuridica per il trattamento di dati particolari
Infine, come accennato in apertura, la normativa in materia di data protection richiede che il trattamento possa essere ricondotto (e che lo sia, in concreto) ad una delle basi giuridiche del trattamento di cui agli artt. 6 e 9 del Regolamento.
Per quanto riguarda i dati qualificabili come comuni, l’articolo 6 offre – premesso il bilanciamento di interessi risultante dall’applicazione di tutte le cautele fin qui esposte – una base giuridica del trattamento “naturale”, ossia il legittimo interesse prevalente del titolare (Art. 6, par. 1, lett. f).
Infatti, che l’interesse del titolare sia “legittimo” è garantito, in questo caso, dal fatto stesso che una norma speciale, l’art. 4 della l. 300/1970, ne preveda la liceità laddove ricorra una delle circostanze sopra elencate. Che tale interesse sia prevalente risulta – come detto – dall’esito positivo dell’applicazione (dimostrabile) di tutte le valutazioni e dall’applicazione di tutte le misure tecniche, organizzative e di tutte le cautele di cui si è dato conto nei precedenti paragrafi.
Diverso è il problema che si pone, invece, laddove il sistema di videosorveglianza sia idoneo a trattare dati qualificabili come afferenti a particolari categorie o giudiziari, di cui agli artt. 9 e 10 del Regolamento.
In questo caso, infatti, il legittimo interesse prevalente (come qualsiasi altra base giuridica di cui al citato art. 6) non vale a giustificare il trattamento né, come potrebbe a prima battuta ritenersi, può essere applicabile la base di cui all’art. 9, par. 2, lett. a) (consenso esplicito), poiché proprio l’ex WP29, nell’Opinion 2/2017 relativa ai trattamenti in ambito lavorativo, ha escluso che il consenso possa essere ritenuto base giuridica valida, stante come già accennato la fisiologica posizione di soggezione in cui versano i lavoratori, tale da ritenere che un consenso da essi prestato non possa mai essere ritenuto libero e, dunque, rispettare quanto richiesto dall’art. 7 del Regolamento.
Ciò pone un problema, derivante dal fatto che il trattamento di dati particolari, laddove la videosorveglianza sui luoghi di lavoro riprenda aree lavorative, non può essere ragionevolmente escluso a priori.
Vero è che si tratterebbe presumibilmente di un trattamento incidentale, che esulerebbe dalle intenzioni del titolare, ma ciò non vale comunque ad annullare la portata del problema.
Casomai, la portata potrebbe essere ragionevolmente ridimensionata mediante alcuni accorgimenti pratici, quali la previsione di caratteristiche tecniche idonee a ridurre al minimo l’eventualità che il trattamento si verifichi.
Le caratteristiche tecniche idonee del sistema di videosorveglianza
Ad esempio, la risoluzione delle immagini videoregistrate dovrebbe essere insufficiente a “leggere” eventuali scritte presenti su display, desktop, giornali, scontrini maneggiati dai lavoratori in aree di ripresa. Inoltre, non dovrebbe essere possibile registrare (o ascoltare live) l’audio.
Ancora, per quanto la previsione esplicita non sia presente nel Provvedimento del 2010 (ma in quello del 2004 si) dovrebbe essere assolutamente evitata la collocazione di dispositivi in aree relax o riservate, nelle quali i lavoratori possano ragionevolmente porre in essere attività non inerenti alla prestazione lavorativa e/o fare legittimo affidamento sulla riservatezza e intimità dei loro comportamenti.
Infine, i lavoratori dovrebbero essere sensibilizzati in merito alla possibilità – pur preterintenzionale – del trattamento di informazioni “sensibili” a loro riferite e, dunque, indotti a tenere comportamenti tali da limitare tale ipotesi al minimo, se non eliminarla.
Ma cosa fare quando, per ragioni dimostrabili e ineludibili (e presupposta la liceità ed il rispetto delle norme vigenti dell’ordinamento civile e penale), è impossibile rispettare i predetti accorgimenti, o altri di simile natura? Quale base giuridica del trattamento può condurre il titolare fuori da questa irragionevole impasse?
In fondo, le aree in cui è resa la prestazione lavorativa possono essere luoghi in cui l’interessato trascorre una parte notevole (anche prevalente) del proprio tempo ed a volte è inevitabile che tenga comportamenti idonei a rivelare informazioni che, fissate nelle immagini registrate, acquisiscano la natura di dati particolari (si pensi all’assunzione di farmaci, alla ricezione di corrispondenza, alla lettura di testi religiosi, a gesti e simboli religiosi, a effusioni – lecite e consone – con altri individui).
In tali casi, è lecito ritenere che le basi giuridiche di cui all’art. 9, par. 2, alle quali riferirsi correttamente nella maggior parte dei casi pratici, possano essere essenzialmente tre:
- quella di cui alle lettere b) e h), laddove la finalità dichiarata ai sensi dell’art. 4 della l. 300/1970 sia quella di garanzia della sicurezza sul lavoro ed i dati trattati siano ad essa pertinenti (ad esempio, dati sulla salute di operai ripresi mentre eseguono prestazioni lavorative pericolose, come quella ad altezza superiore a 5 metri, in spazi confinati o con macchinari pericolosi quali presse);
- nei limiti in cui applicabile, quella di cui alla lettera f), ossia laddove sia possibile dimostrare che l’attività esercitata sia particolarmente rischiosa (ad esempio banche, come esemplificato dal Provv. Del 2010 citato) o il diritto da accertare, esercitare o difendere in sede giudiziaria non sia ipotetico e futuro ma concreto ed attuale (in relazione, quindi, anche ai tempi di data retention) e, come sopra, i dati particolari trattati siano unicamente quelli pertinenti a tale finalità;
- in via residuale, posto che nella maggior parte dei casi, come già accennato, difficilmente trovano applicazione le basi di cui alle lettere c), d), g), i), j), occorrerà riferirsi alla lettera e) (dati resi manifestamente pubblici dall’interessato). Infatti, laddove il titolare abbia efficacemente e sostanzialmente adempiuto agli obblighi di informazione degli interessati (e sia in grado di dimostrarlo) e si sia attenuto strettamente ai trattamenti di dati necessari al fine di conseguire obiettivi leciti, è possibile applicare il ragionamento seguente. I dispositivi di ripresa sono, per loro natura, idonei a trattare dati non difformi da quelli che possono trattare gli organi percettivi umani. Detto altrimenti, ciò che può essere ripreso da una telecamera (audio e video) può essere, con la stessa facilità, essere percepito, anche involontariamente, mediante vista o udito da qualunque individuo che si trovi negli stessi spazi in cui l’informazione viene generata e posta “a favore di telecamera”. Così, il lavoratore che per scelta o necessità rendesse percettibile un’informazione relativa ad aspetti connessi alle proprie idee politiche, filosofiche, religiose o al proprio orientamento sessuale, alla salute e ad altri aspetti di cui all’art. 9 comma 1 del Regolamento, senza adottare alcun accorgimento idoneo a rendere tali informazioni inaccessibili ai colleghi o a terzi nelle pertinenze, starebbe rendendo manifestamente pubbliche tali informazioni, anche per ciò che concerne il sistema di videosorveglianza sui luoghi di lavoro (adeguatamente segnalato e correttamente implementato).
In conclusione, il problema dei dati particolari trattati mediante sistemi di videosorveglianza sui luoghi di lavoro non può essere risolto in via automatica ma deve essere oggetto di una attenta valutazione caso per caso e presuppone una valutazione particolarmente accorta del rispetto di tutti i requisiti richiesti dalla normativa vigente in materia di videosorveglianza in ambito lavorativo onde evitare il rischio di porre in essere trattamenti illeciti che espongano il titolare a sanzioni e a richieste di risarcimento di danni da parte dei lavoratori o da soggetti aventi con essi relazioni qualificate.