Non sempre la videosorveglianza sui luoghi di lavoro è vietata: ci sono casi in cui l’utilizzo di videocamere è consentito, come per esempio per garantire la sicurezza.
Del resto, quando si parla di normative privacy in merito a trattamenti di dati relativi a videosorveglianza, controllo accessi con dati biometrici, dati di geolocalizzazione che possano, direttamente o indirettamente, coinvolgere in qualche modo i lavoratori, bisogna sempre allargare i propri orizzonti giuridici inserendoli nel giusto contesto e rapportandoli a tutta la materia giurisprudenziale e tecnico/orientativa disponibile.
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Videosorveglianza sul lavoro, il quadro normativo
Oltre al quadro normativo di base per la privacy, che parte sempre dal GDPR a cui si aggiunge, per i Titolari residenti in Italia, il Dlgs 196/2003 e suo novellato Dlgs 101/2018, bisogna anche considerare la Legge 300/1970 sullo Statuto del Lavoratori. Purtroppo, tutte queste basi normative, in particolare il GDPR, potrebbero non essere sufficienti se si tratta di affrontare casi particolari come questi, in quanto si limitano a definire un perimetro giuridico dentro al quale c’è ampio margine di interpretazione.
Fortunatamente, ci vengono in soccorso organismi autorevoli come l’EDPB (European Data Protection Board) e il Garante Privacy Italiano che, attraverso la pubblicazione di Linee Guida, FAQ, pareri e provvedimenti, ci aiutano, con casi pratici di applicazione, a definire meglio le aree grigie all’interno del quadro normativo di base. È inoltre anche fondamentale essere sempre aggiornati in merito alla giurisprudenza recente, prodotta sia a livello dei vari Stati Membro che a livello Europeo, per capire meglio come può essere interpretato il Regolamento UE 2016/679 GDPR. A distanza ormai di tre anni dall’applicazione del GDPR ci si augura che, man mano che le varie Autorità di Controllo e Giudiziarie si esprimono su questa materia, ancora così giovane e mal digerita dai più, tutto questo possa sfociare in un prossimo aggiornamento del Regolamento che possa veramente fungere da manuale operativo della privacy, non solo giuridico ma anche pratico senza dover ricorrere a decine di altre fonti.
Controllo dei lavoratori: l’accordo sindacale non legittima il trattamento indiscriminato dei dati
Videosorveglianza sul lavoro, quando è ammessa e quando è vietata
Partiamo innanzitutto dalla normativa di riferimento di base che sono l’Art.4 dello Statuto dei Lavoratori Legge 300/1970 affiancato dal più recente JOBS ACT del 2014 oltre, ovviamente, al Regolamento UE 2016/679 o GDPR. Oltre a questi è doveroso citare le FAQ del Garante e le Linee Guida dell’EDPB 3/2019. In base all’Art.4 della Legge 300/1970 è vietata qualsiasi forma di controllo a distanza del lavoratore fatto salva l’eccezione per i seguenti tre casi stabiliti dal JOBS ACT nella Legge 183 del 10 Dicembre 2014 ovvero:
Caso a) Per esigenze organizzative e produttive;
Caso b) Per garantire la sicurezza sul lavoro;
Caso c) Per tutelare il patrimonio aziendale.
Facendo alcuni esempi, che possano essere ricondotti ai tre casi, possiamo citare in ordine, la necessità di monitorare costantemente determinati macchinari produttivi (caso a), oppure riprendere determinate aree in cui operatori operano in condizioni critiche di sicurezza (caso b), per esempio in orari notturni oppure, nel caso più frequente (caso c), per rilevare eventi delittuosi come furti o danneggiamenti.
Conditio sine qua non per attivare un sistema di videosorveglianza, pur se ammesso in deroga per le motivazioni suddette, deve comunque essere la stipula di un accordo sindacale con le RSU (Rappresentanza Sindacale Unitaria) o le RSA (Rappresentanza Sindacale Aziendale), dove vengono specificate le modalità tecniche ed organizzative con cui viene effettuato il controllo. In mancanza dell’accordo sindacale si dovrà procedere con una istanza alla ITL territoriale per richiedere l’autorizzazione a procedere.
Cosa dice l’EDPB
In base alle Linee guida EDPB 3/2019, dovrà sempre essere fornita ai lavoratori un’informativa definita “a strati” ovvero; che parta da un segnale (informativa ridotta) da affiggere prima che si entri nel raggio d’azione della telecamera, contenente le informazioni minime su Titolare, DPO etc che faccia riferimento mediante un QR-CODE ad una informativa estesa dove vengono specificate chiaramente le finalità, le modalità, i tempi di conservazione delle registrazioni, la locazione dei dispositivi di ripresa e registrazione, l’avvenuto accordo sindacale o l’autorizzazione ITL (solo in Territorio Italiano), diritti dell’Interessato etc.
Tutte queste procedure devono essere attivate anche se l’impianto è attivo solo durante gli orari non lavorativi e, perfino se non viene messo in funzione (telecamere spente o finte) in quanto, basta anche solo la presenza dei dispositivi stessi, per far presumere al lavoratore di poter essere controllato.
Casi pratici
Se si chiede il consenso ai lavoratori si può evitare di chiedere le autorizzazioni RSU e ITL?
In realtà questa domanda è una costante da parte del Datore di Lavoro in quanto si pensa erroneamente che basti il semplice consenso del lavoratore affinché si possa essere legittimati a fare di tutto e di più. In realtà non è proprio così e, per spiegarne le ragioni, citiamo testualmente il paragrafo 1.6 delle stesse Linee guida EDPB: “Tale base giuridica (riferita al consenso), deve essere utilizzata con molta attenzione. Un datore di lavoro non dovrebbe far utilizzo di tale base giuridica, in quanto sarebbe difficile provare che tale consenso sia stato “liberamente prestato. Un contesto in cui il videosorvegliato sia soggetto a pressione per rilasciare il suo consenso vizia il consenso stesso (per esempio nel caso di registrazione dell’allenamento di una squadra di atleti, ogni atleta subirebbe una tacita pressione ad acconsentire da parte del resto della squadra, tale per cui potrebbe non sussistere un consenso libero).”
Si possono installare le telecamere all’interno della fabbrica o degli uffici?
Sia le FAQ del Garante che le Linee guida EDPB 3/2019 non escludono a priori questa possibilità purché, le motivazioni alla base di questa scelta, rientrino nelle tre casistiche precedentemente citate. L’Art.4 dello Statuto dei Lavoratori, parla espressamente di divieto di qualsiasi dispositivo che possa consentire un controllo a distanza del lavoratore. Se prendiamo in esame i tre casi ammessi in deroga a questo divieto dovremmo essere autorizzati ad installare le telecamere all’interno dell’azienda solo per comprovate e ben definite ragioni di sicurezza, organizzative e/o produttive limitandoci, sempre nel caso queste ragioni siano fondate e riconosciute dalla RSU o dalla ITL, a riprendere solo le aree interessate.
Se invece la ragione è la Tutela del Patrimonio Aziendale, la finalità prevalentemente più utilizzata, la faccenda si fa più delicata e dobbiamo far entrare in gioco altri due elementi di valutazione introdotti dalle Linee Guida EDPB: il bilanciamento d’interessi e il principio di necessità.
La pronuncia della Cassazione
La Cassazione è intervenuta sul caso relativo a un’azienda Italiana che si era rivolta alla Suprema Corte in seguito ad una sentenza emessa il 19 giugno 2019 dal Tribunale di Viterbo. Lo stesso Tribunale aveva condannato il datore di lavoro ritenendolo colpevole, in base all’Art.4 della Legge 300/1970, di aver installato impianti video all’interno dell’azienda potenzialmente utilizzabili per il controllo a distanza dei dipendenti, senza aver richiesto né l’accordo delle rappresentanze sindacali, né l’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro.
L’evento si è verificato per le continue mancanze di merce in magazzino a seguito delle quali il datore di lavoro era stato costretto a ricorrere all’installazione di un sistema di videosorveglianza, che però riprendeva le sole aree antistanti le casse e le scaffalature. La Suprema Corte, con la sentenza n. 3255/21, ha annullato la sentenza del Tribunale di Viterbo, affermando che “…deve escludersi la configurabilità del reato per la violazione dell’Art.4 dello Statuto dei lavoratori quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre, però, che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti, o debba restare necessariamente riservato per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi..”.
La decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo
In merito al bilanciamento d’interessi in materia di videosorveglianza sui luoghi di lavoro, è sicuramente da prendere come riferimento la recente sentenza del 17 Ottobre 2019 della Corte europea dei diritti dell’uomo. Tale sentenza riguardava il pronunciamento della Corte in merito all’appello di alcuni lavoratori di un’azienda spagnola, che lamentavano di essere stati licenziati per essere stati ripresi dalle telecamere installate a loro insaputa dal datore di lavoro durante lo svolgimento delle loro mansioni, violando l’art. 8 della convenzione europea dei diritti dell’uomo (“CEDU”), che stabilisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare.
Le registrazioni video avevano infatti rilevato condotte illecite degli stessi dipendenti ai danni dell’azienda, tra cui furti e danneggiamenti, che avevano causato il licenziamento. Nella sentenza, la Corte ribadisce il margine d’apprezzamento degli Stati nell’ambito dell’applicazione dell’art. 8 CEDU e l’importanza di misure proporzionate e adeguate che tutelino un equo bilanciamento d’interessi.
Infatti la Corte stabilisce che, occorre bilanciare gli interessi dei lavoratori, in quanto a tutela della loro privacy, con quelli del datore di lavoro relativi alla protezione e sicurezza dei propri beni nonché al regolare svolgimento della propria attività economica poiché, dice la Corte, “le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non proibiscono i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio”.
In conclusione, la Corte stabilisce altresì che la Videosorveglianza occulta è ammessa solo come “extrema ratio”, le cui modalità devono comunque sottostare a determinati vincoli di spazio, di tempo con l’obiettivo di limitare al massimo il trattamento dei dati in funzione della finalità.
Nel caso specifico l’attività occulta di videosorveglianza è stata considerata ammissibile solo perché in presenza di queste condizioni:
- l’azienda aveva dimostrato che c’erano ragionevoli e fondati sospetti di furti commessi dai dipendenti nel luogo di lavoro;
- l’area ripresa dalle videocamere era circoscritta alle sole zone dove presumibilmente avvenivano i furti;
- le videocamere sono state rese operative per il solo periodo sufficiente a rilevare gli eventi delittuosi, dopodiché sono state disinstallate;
- non era possibile ricorrere a strumenti o tecnologie alternative meno invasive;
- le registrazioni sono state utilizzate solo per fornire le prove in giudizio.
L’opinione del Garante privacy italiano
In materia di videosorveglianza sui luoghi di lavoro, si era pronunciato anche il Garante della Privacy in due provvedimenti del 2010 e del 2018 affermando che: “La rilevazione delle immagini può avvenire senza consenso, qualora sia effettuata nell’intento di perseguire un legittimo interesse del titolare o di un terzo attraverso la raccolta di mezzi di prova o perseguendo fini di tutela di persone e beni rispetto a possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di vandalismo, o finalità di prevenzione di incendi o di sicurezza del lavoro”.