Le ultime novità in fatto di tracciamento per marketing digitale da parte dei colossi del web riguardano soprattutto Apple e Google, in particolare, che stanno improntando la propria politica di marketing digitale verso un più massiccio uso dei dati “di prima parte”, raccolti in prima persona, conquistando un mercato che era a favore soprattutto di Meta. La quale, invece, basandosi su strategie improntate su dati di terze parti, sui cookie e sugli identificatori online, ha stimato di perdere ora più di dieci miliardi di dollari a seguito delle restrizioni introdotte da Apple.
Chi pensava che le iniziative messe in cantiere da tali big per adattarsi al nuovo mercato potessero portare a un minor tracciamento dovrebbe ricredersi: non minore tracciamento, bensì orientato verso nuove o diverse modalità di proporre annunci mirati. Sempre più riservato al “padrone del cortile”, cioè soprattutto i big dei sistemi operativi e delle maggiori app che possono così gestire in autonomia il rapporto con i propri utenti, con una minor condivisione tra aziende, perlomeno dei dati “in chiaro”.
È l’ennesima puntata della laboriosa transizione dal mondo dei cookie di terze parti e del tracking pervasivo a una dimensione – forse – meno invasiva del marketing digitale, alcuni si spingono a dire più persino “privacy driven”. Vediamo di seguito di capire su cosa si basano queste affermazioni.
Il digital marketing senza cookie: quali sono gli scenari prossimi venturi
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Dati di prima/seconda/terza parte: transizione in progress
Riepiloghiamo brevemente la differenza sostanziale circa la fonte dei dati:
- dati di terza parte: cioè acquisiti da terze parti, terzi che solitamente non hanno un rapporto di prima parte con l’interessato di cui posseggono i dati, ad es. raccogliendo e aggregando dati di più fonti per un list-brokering commerciale; di fatto sono “uguali per tutti” i fruitori;
- dati di seconda parte: ovvero provenienti da un partner ritenuto attendibile, ad es. condividendo i propri dati di prima parte e arricchendoli con quelli di prima parte raccolti da un’altra azienda presso un diverso sito web/landing page, sulla base di specifici accordi tra le due aziende;
- dati di prima parte: questi ultimi sono quelli raccolti dal titolare presso il suo stesso dominio web, o la sua stessa app, che l’utente sta consultando, con cui ha dunque un rapporto diretto, ad es. quanto a dati conferiti direttamente nei form da parte dell’utente, sue interazioni digitali, cronologia degli acquisti, comportamenti online e preferenze, fedeltà, ecc.; a differenza dei dati di terza parte, sono dati che possiamo tendenzialmente dichiarare “unici” in virtù del rapporto specifico interessato-titolare.
Il passato era dominato soprattutto dai dati di terze parti. Poi sono avvenute “rivoluzioni” nell’ecosistema digitale, come le modifiche tecniche di browser come Safari, in ottica restrittiva verso i cookie di terze parti, come la diffusione degli ad-blocker, come l’introduzione del framework ATT di Apple (che ha cessato il tracciamento “by default” dell’utente, tramite l’identificativo del dispositivo Apple), come l’annuncio di Google stessa di voler dismettere i cookie di terze parti da Chrome nel 2023.
Chiamatela “cookieless era”, “post-third party cookie era” o in altro modo, il concetto è che fare marketing mirato alla vecchia maniera è e sarà sempre più arduo. Lo si farà, in altri modi, con diversi risultati, con diversi costi (prevedibilmente più elevati). Il dubbio principale è se sarà anche maggiormente rispettoso della privacy utente.
Dati di prima parte: risorsa per un nuovo digital marketing
Una delle strade che si stanno battendo nell’ecosistema per “rimediare” agli intuitivi effetti di questi cambiamenti, già accennata in passato in questa sede, è proprio quella del concentrarsi sui dati di prima parte, raccolti in proprio.
Lo riportava pure la recente analisi di IAB Europe sullo stato attuale del settore e delle strategie in corso. Il nuovo mantra sarebbe quello di approfondire, rafforzare il rapporto con il proprio utente/cliente per basarsi su un rapporto di maggiore fiducia e continuatività, di fidelizzazione.
Il dato di prima parte permette di conoscere meglio la propria clientela, in maniera potenzialmente superiore ai dati di seconda e terza parte, specie se abbinato a soluzioni di customer intelligence ed elaborazione dei dati che restituiscono profili utente più precisi e aggiornati.
In teoria si tratta di un’alternativa valida per varie ragioni:
- dati di qualità superiore (perché raccolti in proprio e di maggiore pertinenza ed accuratezza);
- su cui si ha pieno controllo (pensiamo al formato, alla gestione, all’elaborazione, ecc.) nella gestione in prima linea;
- di (teorica) maggiore sicurezza legale (essendo raccolti direttamente dall’interessato in propri domini, non si sarà in ballo dei rischi di liste raccolte da terzi, con chissà quali modalità e un incerto rispetto delle normative);
- non da ultimo, di maggiore economicità per la facilità nella loro raccolta.
Le tipologie di dati possono essere le più svariate, potendo andare dai dati comportamentali a quelli contrattuali e di abbonamento, da quelli raccolti sui social media a sondaggi e feedback dei clienti. Permettendo strategie di marketing sia di mera comunicazione commerciale che di retargeting (cioè di ri-contatto dei potenziali clienti che visitano un sito web senza concludere un ordine).
Però sul fronte commerciale si intuisce che questa strategia è vincente e relativamente scalabile soprattutto per i big player, i soliti noti colossi con milioni di utenti e che – per decenni – ne hanno raccolto ed elaborato i dati, continuando a farlo come non mai, cookie o meno.
Chi così big non è (PMI, professionisti, ecc.), potrà fruire comunque dei (nuovi) servizi dei big per poter ottenere benefici di un certo tipo, circa l’acquisizione di nuovi prospect e clienti. Diversamente, si dovrà impiantare probabilmente una nuova strategia, in proprio, per raccogliere i dati dei propri utenti e sfruttarli in maniera efficace, cosa non proprio banale e alla portata di tutti se mirata ai risultati che finora erano usuali nel mercato. E qui veniamo alle iniziative più recenti.
Le iniziative dei grandi player digitali
Il mercato attuale, a proposito di PMI, indica uno spostamento degli investimenti in marketing digitale: sempre meno per provider incentrati sui dati di diffuse terze parti, come gli annunci tramite Facebook e Instagram, sempre più a favore di player con molti dati di prima parte e un design impostato su questi, come Google e Amazon.
Ciò, soprattutto, dopo le citate modifiche Apple al tracciamento dei propri dispositivi e che avrebbero falcidiato gli usuali “ritorni” di audience garantiti dagli annunci con dati di terze parti. È facile pensare che questo spostamento di baricentro a favore dei “first data champions”, Google e Apple, possa essere stato incoraggiato strategicamente perlomeno da Apple per favorire i propri servizi di digital advertising.
Gli operatori over-the-top come Amazon posseggono e continuano a raccogliere tantissimi dati di prima parte, con profitti pubblicitari considerevoli, tramite gli innumerevoli touchpoint con gli utenti. Pensando ad Amazon, i dati sono numerosi e variegati, come quelli di acquisto e di ubicazione, i dati sulla fruizione dello streaming, ecc. Amazon può puntare sul rapporto diretto utente-marketplace, ad es. quanto ai risultati di query di ricerca degli utenti, così come agire sulla visualizzazione di prodotti affini: “I clienti che hanno visto questo articolo hanno visto anche…”.
Questo tipo di ranking dei risultati si paga e può fare la differenza per un inserzionista. Rivelando per la prima volta tali dati, Amazon ha comunicato in febbraio i proventi derivanti dall’advertising nel 2021, pari a oltre 31 miliardi di dollari.
A conferma del crescente e rilevante business per l’azienda, a svantaggio dei concorrenti. Per Google vale lo stesso discorso, specie se pensiamo allo sfruttamento delle query di ricerca del suo business principale come analogo strumento di visibilità per gli inserzionisti: dal far comparire subito un annuncio tra i risultati a elevare un determinato inserzionista tra i primi risultati visualizzati.
Anche Apple rientrerebbe in questa cernita, anzitutto per aver dato il contributo più significativo con il proprio programma ATT, imposto così agli sviluppatori di app dell’ecosistema iOS e lanciato con certa enfasi (ad es. il report di aprile scorso A Day in the Life of Your Data). Il fatto che Apple si dichiari così “privacy-oriented” verso terzi non esenta da possibili abusi di terzi: ad es. era notizia di settembre che diverse app effettuerebbero sempre e comunque un tracciamento dell’utente, anche se esplicitamente rifiutato con le nuove impostazioni, utilizzando le impronte digitali acquisite da iOS.
E Meta, che comunque con i propri social Facebook e Instagram non può certo dirsi a secco di dati di prima parte? L’azienda ha dichiarato di aver subito notevoli ripercussioni economiche – nell’ordine di una decina di miliardi di dollari – dalle menzionate scelte di Apple, la quale invece avrebbe aumentato di quasi il triplo la propria quota di mercato advertising a seguito dell’introduzione di ATT.
Meta starebbe così imboccando nuove strade, provando diverse alternative – dichiarate più privacy-friendly. Richiamando esplicitamente misure PETs (Privacy Enhancing Technologies) nell’architettura delle proprie novità – per mantenere sì una profilazione degli utenti (la personalizzazione degli annunci resta l’obiettivo perenne del marketing digitale) ma in maniera diversa rispetto a un passato impostato sul tracciamento onnipervasivo e più o meno “in chiaro”.
Un esempio ne è il test in corso della soluzione Private Lift Measurement, la quale dovrebbe offrire misurazioni sull’andamento di una campagna, non rendendo noti – in chiaro – i dati personali degli utenti agli inserzionisti, sfruttando uno strumento di pseudonimizzazione come la computazione multi-parte (si sfrutta la crittografia per effettuare elaborazioni in comune tra più soggetti ma senza rivelare i propri dati di input).
Così come si starebbero esplorando applicazioni per il c.d. on-device learning, cioè per un trattamento dei dati in locale, sul dispositivo utente, senza trasmissione all’esterno dei dati grezzi di partenza.
È interessante constatare che Meta stessa pare abbia contattato alcune PMI – secondo dichiarazioni della software house USA Ontraport, specializzata proprio in piccole aziende – per richiedere i loro dati di prima parte, riferiti ai propri utenti, si dice per migliorare la resa degli annunci tramite le piattaforme di Meta. Richiedendo contestualmente garanzia che i dati siano stati raccolti con i dovuti consensi.
Un modo per reperire in altro modo i dati che, al momento, Meta raccoglie come dati di terze parti e che sta via via dismettendo visto il blocco iOS al tracciamento posto da Apple. In varie dichiarazioni Meta avrebbe smentito che queste strategie siano state meditate per bypassare le restrizioni varate da Apple – anzi, si afferma che il programma sarebbe stato varato ben prima delle contestate modifiche di Apple, oltre a rammentare che pure Google e altri player avrebbero attuato prassi simili.
Conclusioni
In breve possiamo constatare che al momento Google e Apple sembrano inclini a utilizzare i propri dati di prima parte per far pervenire gli annunci in maniera efficace agli utenti, senza condividerli con gli inserzionisti, privilegiando una forma di contextual advertising. Meta pare più concentrata su nuove forme di elaborazione e condivisione dei dati, non già in chiaro ma “protetti” da svariate tecniche nel loro utilizzo e che possiamo definire più pseudonimizzati che anonimizzati.
Ricordiamo che – per essere lecita – la raccolta e l’utilizzo dei dati di prima parte (i dati pseudonimizzati restano dati personali, prima parte o meno), ai sensi del GDPR e della Direttiva ePrivacy 2002/58 (recepita nel Codice privacy nostrano), dovrà basarsi essenzialmente sul consenso dell’utente, raccolto in maniera comprovabile (per dimostrare l’accountability imposta dall’art. 5.4 GDPR).
Consenso vieppiù specifico e distinto nel caso della profilazione, come può accadere quando si comincia a prevedere il comportamento utente e a fare effettuare inferenze sulle abitudini di acquisto. Il punto è come viene effettuata questa attività, quanto possa essere trasparentemente resa nota – in sede informativa – all’utente.
Se questa è una nuova era per l’utilizzo dei dati di prima parte, di per sé non garantirà un maggiore rispetto della privacy: vi dovrà essere una maggiore attenzione e consapevolezza per l’uso dei dati raccolti ed elaborati in proprio.
E si dovrà continuare a vagliare con attenzione le soluzioni, pur basate su dati di prima parte raccolti da terzi, proposte dai provider: pensiamo agli esempi sopra fatti circa il ricorso a servizi di Google e Amazon, dovremmo attenderci nuove criticità come quelle emerse negli ultimi tempi in servizi apparentemente “innocui” come Google Fonts?