Si stanno vedendo i primi riflessi in giurisprudenza della sentenza della Cassazione 5352/2018 secondo cui serve l’accertamento dell’indirizzo IP per provare la diffamazione. Con ricadute che possono esserci anche in altri ambiti, come quello aziendale.
“Questo effetto della sentenza di Cassazione di febbraio 2018 comincio a vederlo nei casi che sto seguendo in alcune sedi di giustizia. Cresce quindi l’importanza di aspetti tecnici nei procedimenti che riguardano queste fattispecie”, dice Antonio Cilli, docente di Informatica Giuridica presso l’Università Leonardo da Vinci e la Scuola per Ispettori e Sovrintendenti della Guardia di Finanza (AQ), oltre a essere perito di varie Procure e Tribunali in digital forensics.
Accertare l’indirizzo IP diventa fondamentale; questo in linea anche con il GDPR che lo eleva al rango di dato personale.
E ci può essere un impatto di questo orientamento anche in ambito aziendale: “Dobbiamo stare attenti ai contesti di applicazione, soprattutto in azienda: molto spesso Internet rileva un solo indirizzo per un’intera organizzazione – spiega Alessio Pennasilico di P4I -. Un messaggio su un forum identificato come proveniente da un indirizzo IP di P4I, firmato a nome Alessio Pennasilico, potrebbe essere attribuito con certezza ad Alessio Pennasilico? Da un punto di vista meramente tecnologico risponderei di no”.
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IP, identità digitale aziendale e del lavoratore
Pennasilico specifica: “Per questa ragione è sempre più indispensabile presidiare la propria identità digitale: avere un proprio profilo sui portali più utilizzati, facilmente riconducibile a se stessi e riconoscibili, permette di evitare che altri con profili falsi possano operare a nostro nome. Il mio profilo su Facebook è registrato da anni, ha una vasta rete di contatti. Chiunque registri un nuovo profilo a mio nome sarebbe difficilmente confondibile con me”.
Oltretutto, l’indirizzo IP assume un valore legale importante in caso si configurino reati quali la sostituzione di persona: “Spesso l’indirizzo IP di provenienza viene utilizzato come prova in caso di denuncia proprio per identificare l’autore del fatto denunciato, quindi nel caso di chi mi abbia impersonato diventa rilevantissimo per dimostrare che non sono stato io ad attuare quel comportamento ed a fornire gli elementi necessari per identificare il reale autore”, spiega Pennasilico. Da precisare che sebbene l’indirizzo IP in uscita dall’azienda sia unico, è comunque possibile risalire al computer specifico che ha inviato un dato messaggio tramite altre tracce.
Il caso: la sentenza di Cassazione
Nella sentenza 5352/2018, viene riportato che l’imputata è stata condannata in primo grado con rito abbreviato e poi in secondo grado dalla Corte d’Appello di Lecce per il reato di diffamazione, previsto dall’articolo 595 del codice penale. La sentenza è stata rigettata da parte della Suprema corte, che ha rinviato gli atti nuovamente in Appello per la ripetizione del processo di secondo grado.a controversia riguardava il caso di una donna accusata di aver offeso la reputazione di un sindaco con un messaggio diffamatorio attraverso i social network, in particolare su un forum relativo a questioni legate al Comune. In sede di terzo grado di giudizio, la signora contesta le motivazioni del giudice perché, secondo l’imputata, ha violato i criteri di valutazione della prova. L’imputata controbatte anche alla Corte territoriale perché ha attribuito il messaggio a un profilo con il suo nome e cognome, riguardante le richieste dei lavoratori socialmente utili del Comune, nel periodo in cui lavorava nell’organizzazione sindacale.
L’imputata ritiene che gli indizi non siano fondati perché non è stato identificato l’indirizzo IP di provenienza del post e che la sua attività sindacale era estranea al messaggio pubblicati sul forum. La signora considera l’accusa non fondata perché non conosceva il sindaco, inoltre ribadisce di essere estranea all’attività sindacale rispetto i lavoratori socialmente utili del comune. La difesa inoltre ha confermato che le indagini svolte in origine dalla parte civile, hanno dimostrato che l’indirizzo IP individuato era attribuito al profilo Facebook di un altro sindacalista.
L’omessa verifica dell’IP
La ricorrente contesta, come già rilevato in appello, l’omessa verifica da parte dell’accusa dell’indirizzo IP di provenienza, il cosiddetto file log e gli orari della connessione. Il ricorso presentato è stato ritenuto fondato anche dalla Corte territoriale, che non ha valutato come prova l’argomento difensivo secondo cui l’accertamento può essere utile per verificare il titolare della linea telefonica. L’imputata ha dunque rifiutato la paternità del post in ogni grado di giudizio di merito. La sentenza impugnata è stata annullata con rinvio sulla base dell’insufficiente motivazione circa il prospettato dubbio concernente, l’eventualità che terzi abbiano potuto utilizzare il nick name dell’imputata per inviare il messaggio sul forum di discussione e il mancato rispetto dei criteri legali di valutazione.
Pennasilico commenta: “Trovo la sentenza corretta nel principio: chiunque potrebbe utilizzare il mio nome ed il mio cognome su Internet; per questa ragione è fondamentale che l’attribuzione di un certo comportamento debba essere molto precisa e chiara, soprattutto se si configura un reato”.