Semaforo rosso ai legali i quali non possono più fare accesso ai dati per conto dei propri clienti, se non allegano alla richiesta una formale delega che legittimi gli avvocati stessi ad accedere ai dati personali di un loro assistito, ovvero serve la doppia firma.
A stabilirlo è la recente sentenza emessa in data 7 gennaio 2025 n. 47, dal Tribunale di Salerno. Analizziamola.
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Avvocati e diritto di accesso, cosa cambia
D’ora in avanti per esercitare il diritto di accesso ai dati personali di un proprio cliente, assistito o interessato non basta più la solita formula “in nome e per conto” e quindi la mera dichiarazione di agire su un presunto incarico affidato, ma occorre allegare una delega scritta ovvero la doppia firma.
Affinché, dunque, una richiesta di accesso sia lecita o meglio legittima, oltre che conforme all’art. 15 del GDPR, deve essere sottoscritta tanto dall’avvocato quanto dal cliente oppure deve avere allegata la delega che il cliente ha conferito al legale professionista. Ma scopriamo le ragioni.
Il caso e le ragioni del diniego
Il caso nasce da una richiesta (stragiudiziale) che un avvocato ha rivolto a una società di servizi, agendo in nome e per conto di un proprio cliente al fine di avere copia di un contratto di telefonia mobile che lo riguardava.
Poiché la società in questione respingeva la richiesta, il collega proponeva ricorso per decreto ingiuntivo con un obbligo di facere consistente per l’appunto nell’esibizione del contratto.
Otteneva dal Giudice di Pace adito quanto chiedeva, ma la società presentava opposizione.
Di qui la pronuncia che ci occupa.
Il tribunale campano ha respinto l’iniziativa dell’avvocato consistente in una richiesta di accesso privacy, per una ragione molto semplice: mancava la prova del mandato ricevuto, limitandosi a dirlo sulla parola.
Diritto di accesso: la delega è un must
Dunque, è giusto il diniego da parte di un titolare del trattamento — nel nostro caso l’azienda di servizi — di non far accedere ai dati personali di un interessato anche quando a richiederlo è l’avvocato se non prova di avere (ricevuto) giusta delega.
D’altra parte, di fronte all’incertezza oggettiva non si poteva fare diversamente, pena sanzioni anche pensanti (ex art. 83 GDPR) che ben conosciamo.
Ricordiamo che il diritto d’accesso ai dati personali alla luce del GDPR, prevede che l’utente/interessato ha diritto di sapere se un’organizzazione sta trattando i suoi dati, quali e come (ex art. 15 GDPR). Richiesta che può essere fatta per conto, ma comprovando di averne diritto/titolo.
Di qui, la delega è un must cioè occorre sempre, è una procura alle liti nella pratica, non per forza atto pubblico, potrebbe anche solo bastare una mera scrittura privata.
Del resto, anche le Linee guida 1/2022 sui diritti degli interessati, emesso dal Comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB), ricordano che “il titolare del trattamento ha il dovere di controllare la legittimazione del richiedente a ricevere le informazioni”.
Nulla di nuovo, dunque.
Avvocati e diritto di accesso: cosa impariamo
Dalla sentenza qui analizzata, per quanto nella sua interezza tratta anche di altre questioni alle quali rinviamo per completezza, impariamo che non possiamo limitarci a scrivere o a dire che siamo i legali dell’interessato, ma ci occorre anche dimostrarlo, se vogliamo che la nostra richiesta (di accesso) venga presa in considerazione.
Questa pronuncia ci insegna a non dare nulla per scontato, né tanto meno la presunzione per il solo fatto di essere avvocati dell’interessato e quindi poter accedere a qualunque informazione (ex art. 15). No, non funziona così.
Del resto, in diritto non basta avere ragione, ma occorre anche dimostrarlo.
In difetto, tornando al caso di specie, non solo la richiesta di accesso viene respinta, ma anche si corre il rischio che il titolare del trattamento, mettendo a disposizione i dati a un terzo non autorizzato, incorra in una sanzione (art. 83) pecuniaria fino a 20 milioni di euro o se superiore per le imprese fino all’importo pari al 4% del fatturato.
Non poco, insomma.