La sentenza dell’8 dicembre 2022 della Corte di Giustizia dell’Unione europea stabilisce un nuovo parametro per la deindicizzazione delle notizie dai motori di ricerca, di fatto facilitando l’esercizio di questo diritto (all’oblio) dell’utente.
Se il fatto è falso, anche in parte, si può ottenere dal motore di ricerca la rimozione dai risultati; non serve passare da un giudice (o dal Garante privacy).
L’applicazione pratica del principio di diritto, probabilmente, richiederà del tempo ed un adeguamento delle policy di Google e affini.
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Deindicizzazione, cosa dice la Corte di Giustizia dell’Unione europea
“Il gestore di un motore di ricerca deve deindicizzare le informazioni incluse nel contenuto indicizzato quando il richiedente dimostri che sono manifestamente inesatte. Tale prova tuttavia non deve necessariamente risultare da una decisione giudiziaria ottenuta nei confronti dell’editore del sito Internet”. Inizia così il comunicato stampa 197/2022 della Corte di Giustizia dell’Unione europea, con cui si sintetizza il principio di diritto espresso nella sentenza cui si riferisce.
L’antefatto
La sentenza trae origine da un rinvio pregiudiziale effettuato dalla Corte Federale di Giustizia tedesca, con riferimento all’articolo 17 del GDPR (che tratta di diritto all’oblio, appunto), oltre che con riferimento alle direttive applicabili ed all’articolo 8 del Trattato di Lisbona. A quanto si apprende dal comunicato stampa, la Corte di Giustizia ha effettuato due distinti bilanciamenti di interessi tra diritti contrapposti: da una parte il diritto alla protezione dei dati personali e, dall’altra, il diritto all’informazione.
Il secondo bilanciamento è relativo al diritto all’oblio mediante deindicizzazione, contrapposto all’onere di verifica da parte del motore di ricerca. I termini del primo bilanciamento sono espressi con ottima sintesi nel comunicato stampa del 8 dicembre 2022: “Nella sua sentenza in data odierna, la Corte ricorda che il diritto alla protezione dei dati personali non è un diritto assoluto, ma deve essere considerato in relazione alla sua funzione sociale ed essere bilanciato con altri diritti fondamentali, conformemente al principio di proporzionalità. Il regolamento generale sulla protezione dei dati prevede espressamente, infatti, che è escluso il diritto alla cancellazione allorché il trattamento è necessario all’esercizio del diritto relativo, in particolare, alla libertà di informazione. I diritti dell’interessato alla protezione della vita privata e alla protezione dei dati personali prevalgono, di regola, sul legittimo interesse degli utenti di Internet potenzialmente interessati ad avere accesso all’informazione in questione” (CS 197/2022, pag. 1). Meno intuitivo, sotto il profilo giuridico, il secondo bilanciamento, legato ai rapporti diretti tra interessato e motore di ricerca.
Il framework normativo
Il ragionamento sul diritto alla deindicizzazione, così come presentato nel comunicato stampa, è spiegato per quanto riguarda la fase finale ma non quella delle premesse; proviamo, quindi, ad esplicitarlo in ogni sua parte. Il diritto all’oblio trova copertura nell’articolo 8 del Trattato di Lisbona ed è sancito espressamente dall’articolo 17 del GDPR. Per esercitarlo in maniera concreta, già da alcuni anni viene impiegato lo strumento della deindicizzazione delle notizie non rilevanti, false, diffamatorie o comunque inesatte dai motori di ricerca. Per esercitare questo diritto, fino alla sentenza odierna, era necessario avere, sempre, un titolo giudiziario, sentenza o provvedimento di autorità garante.
Dato che la diffusione dell’esercizio al diritto all’oblio inizia ad impattare eccessivamente sia sui tribunali che sui cittadini, cui è richiesto, obiettivamente, uno sforzo rilevante per ottenere un titolo idoneo alla deindicizzazione, la Corte ha ritenuto che sia obbligo del gestore del motore di ricerca dotarsi di una procedura per l’accesso diretto del cittadino. Questa procedura, però, non è imposta dalla normativa vigente: servivano, quindi, almeno delle linee guida.
Linee guida che la Corte indica con chiarezza. L’interessato deve dimostrare al gestore del motore di ricerca “l’inesattezza manifesta delle informazioni o, quanto meno, di una parte di esse che non abbia un’importanza minore”. La persona, però, sarà “tenuta unicamente a fornire gli elementi di prova che si può ragionevolmente richiedere a quest’ultima di ricercare” e non necessariamente una sentenza. Il gestore per parte sua, dovrà garantire un facile accesso alla deindicizzazione, senza però “svolgere un ruolo attivo nella ricerca di elementi di fatto che non sono suffragati dalla richiesta di deindicizzazione, per determinarne la fondatezza”. Il motore di ricerca dovrà deindicizzare, quini, se l’interessato potrà portare “elementi di prova pertinenti e sufficienti, idonei a corroborare la sua richiesta e atti a dimostrare il carattere manifestamente inesatto delle informazioni incluse nel contenuto indicizzato”.
L’analisi
Con l’entrata in vigore del Digital Service Act sarà necessario, per i gatekeepers, dotarsi di procedure idonee a semplificare agli interessati l’esercizio dei propri diritti. La decisione della Corte di Giustizia dell’Unione europea, quindi, si colloca non solo in linea con quanto già previsto, ma anche con quanto avverrà a breve. Il punto sarà comprendere quali saranno i criteri del “ragionevole” e del “manifestamente infondato”, perché il contenzioso del futuro, per e contro i gestori dei servizi di hosting, si giocherà su questo.
In altri termini, ci saranno modalità semplificate di esercitare i propri diritti in via diretta, con procedure interne alle aziende; in caso di mancata soddisfazione della richiesta, la possibilità di agire in via precontenziosa – con ricorso al Corecom, ad esempio? – e solo in via estremamente residuale tramite ricorso all’autorità giudiziaria. A dottrina e giurisprudenza, quindi, il compito di riempire di contenuti questi concetti, intuitivi, ma piuttosto vaghi.