Il credential stuffing è l’ultimo arrivato nella famiglia degli attacchi di tipo brute force (anche se il metodo è old but gold). Malgrado non sia un vero e proprio attacco di forza bruta, nessun guess o crack delle credenziali, gli attacchi credential stuffing sfruttano la poca attenzione riservata alla sicurezza delle credenziali degli utenti, soprattutto nelle aziende che di fatto rappresentano il target primario per questo tipo di cyber attack.
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Attacchi credential stuffing: la tecnica
Nello specifico gli attacchi credential stuffing generici vengono così eseguiti:
- l’attaccante si crea (qualora non ne avesse già uno a disposizione) un nutrito archivio di username e password raccolte in giro per la rete, magari a seguito di massicci data breach;
- crea uno script (ad esempio in formato JSON) contente le istruzioni per l’accesso a questo archivio, oppure usa uno dei tanti tool che da tempo sono disponibili in rete e che di fatto automatizzano il recupero delle credenziali rubate;
- lancia lo script contro un sito web sperando che determinati utenti non abbiano cambiato la password oppure usino sempre la stessa per diversi account.
Come si vede, la procedura per portare a termine il furto di identità online è molto semplice e la creazione di tool automatici a disposizione di chiunque rende questo tipo di attacco “di tendenza”. Tanto che secondo alcune ricerche ogni minuto vengono rubate oltre 6.000 credenziali.
Di fatto, quindi, siamo di fronte ad un tipo di attacco che sfrutta la scarsa security awareness degli utenti e la mancanza di policy specifiche per la creazione di account su siti di terze parti.
Gli strumenti utilizzati negli attacchi credential stuffing
Esistono molti tool e archivi online in cui è possibile eseguire query in base all’indirizzo e-mail o al dominio per trovare le credenziali da usare poi negli attacchi di credential stuffing che portano al furto dell’identità online di ignare vittime.
Sicuramente uno dei luoghi in cui giornalmente si trovano credenziali “fresche” è Pastebin. Molto spesso, inoltre, i dati di accesso degli account utenti vengono forniti ai criminal hacker in seguito ad errori di sviluppatori che inseriscono le credenziali nelle URL dei siti e dei servizi online.
Anche gli attacchi basati su social engineering ed SQL injection sono altre fonti privilegiate dai malintenzionati per entrare in possesso di preziose informazioni personali delle loro vittime.
Ma il metodo più facile per recuperare enormi elenchi di username e password, accessibile anche ai cosiddetti script kiddies, è usare Google con dei dorks (testi di ricerca contenenti diverse keyword da immettere nel motore di ricerca per ottenere risultati specifici) che consentono di trovare le rapidamente migliaia di pagine web indicizzate dai googlebot e che puntano a file di configurazioni contenenti numerosissime credenziali in chiaro: ad esempio, db_connect.php, file sql e, incredibile ma vero, anche pass.txt e fogli di calcolo Excel con dovizia di username e password. Un bacino enorme a cui i cercatori di credenziali possono accedere con estrema facilità.
Infine, un’altra modalità di recupero fraudolento di credenziali di accesso è il classico phishing.
Attacchi credential stuffing: una storia vera
È comunque sbagliato pensare che gli attacchi credential stuffing impattino solo sul riutilizzo delle password illecitamente sottratte ai legittimi proprietari. Questa particolare tipologia di attacco, infatti, potrebbe rivelare molte più cose della vittima designata, specialmente in merito alla postura di sicurezza di una azienda o di un utente.
Il più delle volte, infatti, gli utenti utilizzano come password il nome dei figli, la data di un evento importante, il nome della ragazza e via dicendo. Queste “innocue” informazioni possono tornare utili per ottenere maggiori informazioni e successivamente creare una vera e propria campagna d’attacco mirata ad ottenere, ad esempio, l’emissione di bonifici a favore dei criminal hacker spacciatisi per un dirigente d’azienda, oppure a indurre interi reparti ad effettuare determinate operazioni.
Messa così sembrerebbe un racconto di fantascienza ma a tal proposito può tornare utile riportare un caso reale avvenuto in un’azienda in cui, grazie all’adozione di specifiche policy di sicurezza, non era previsto il reuse della password, ma l’aver trovato la chiave di accesso all’account aziendale di una determinata persona ha fatto in modo che un bonifico di 50 mila euro andasse a uno sconosciuto. Ecco i fatti.
Il signor X è il responsabile finanziario di una grossa azienda, segue metodicamente le policy aziendali e non si permetterebbe mai di usare il suo account ufficiale per siti non pertinenti o poco sicuri, nemmeno per accedere al forum del financial god.org tanto è scrupoloso.
Però il signor X ha una vita privata e, libero dalle policy aziendali, decide di usare la password carlo2000 (nome del figlio e anno di nascita) per iscriversi al sito della sua passione personale (pescadimontagna.com).
Il sito si rivela con una pessima sicurezza e viene facilmente “bucato” dai criminal hacker che, subito dopo pubblicano le credenziali degli utenti su pastebin.com.
Un allegro giovanotto filippino decide di tentare il colpo e fa un po’ di indagini sui vari utenti trovati. Scopre che il signor X è un personaggio di un certo rango all’interno dell’azienda e, indagando ancora più a fondo, riesce a trovare la sua casella di posta aziendale. Ma niente da fare: le attenzioni usate dal signor X nella gestione del suo account aziendale non consentono all’attaccante di accedere alla mailbox.
Allora il ragazzotto filippino decide di provare gli altri account social che nel frattempo è riuscito a trovare, profilando il signor X in una maniera degna dei servizi segreti. Caso vuole che il signor X abbia utilizzato la password carlo2000 per un altro account personale. Questo ha permesso al ragazzotto di ottenere parecchi dati speciali su passioni e attività del signor X, oltre a numerosi numeri di telefono.
A questo punto il ragazzotto ha forgiato una campagna mirata (includendo anche attacchi di tipo SMS spoofing) per far sì che il suo ufficio emettesse un bonifico di 50 mila euro ad una fantomatica ditta filippina. La truffa ha dato i suoi frutti.
Quanti di noi direbbero ora: “a me non sarebbe successo”?
Se ben forgiata, e senza controlli a più livelli, le campagne di attacchi credential stuffing permetterebbero di ingannare anche le persone più esperte ed attente.
Buone pratiche di sicurezza per difendersi
Come abbiamo visto, gli attacchi credential stuffing hanno diverse sfaccettature e il fine ultimo non è solo quello di individuare e rubare la password “giusta” insistendo fino a trovarla: si stima, infatti, che il successo di un reuse password sia del 2% durante un attacco.
I criminal hacker sfruttano gli attacchi credential stuffing soprattutto per recuperare informazioni personali e riservati che rappresentano la linfa vitale per capire la vittima, scoprire i dettagli della sua vita privata e portare a termine truffe sempre più sofisticate.
La remediation agli attacchi credential stuffing consiste nell’implementare diversi livelli di sicurezza e definire precise policy di sicurezza aziendale che limitino certe azioni o specifichino cosa si può fare e cosa non si può fare.
In particolare, una policy di sicurezza dovrebbe comprendere i seguenti punti:
- se si usa un account aziendale, usare una password complessa che segua le direttive aziendali di password creation e che non sia mai simile o uguale a quella usata internamente. Questo permette di non esporre ad un eventuale attaccante la metodologia usata nella creazione interna delle password;
- mai usare un account aziendale per scopi privati, ogni cosa dovrebbe essere monitorata dal team aziendale di cyber security in modo da poter intervenire subito a fronte di un eventuale data breach;
- imporre il divieto assoluto di accedere alla posta personale dai client aziendali.
È importante anche differenziare sempre lo username dall’ID aziendale, in modo che sia difficile risalire al proprietario. Oltre a queste linee guida, è poi utile adottare anche sistemi di accesso con codici captcha, lockout del login dopo un tot di tentativi e sistemi di autenticazione a più fattori.
Non bisogna poi dimenticare che molto spesso una delle principali fonti di credenziali utili alle attività malevoli dei criminal hacker è la poca sicurezza dei device mobili. Migliaia di app Android, ad esempio, avevano keylogger e backdoor nascoste nel codice che permettevano di rubare facilmente le credenziali degli utenti.
Se a questo aggiungiamo che spesso non vi sono controlli validi sui dispositivi mobile utilizzati in azienda (“ma sì, tanto sui telefoni c’è solo la posta”, è il mantra dei più), ci ritroviamo in una situazione paradossale in cui si spendono enormi budget per la sicurezza perimetrale tralasciando la sicurezza dei dispositivi usati per lo smart working (effetto Colosseo).
Insomma, la difesa non è un metodo ma una strategia che deve essere studiata in base alla propria architettura aziendale e alle proprie policy di sicurezza.