L'ANALISI TECNICA

BLURtooth, la vulnerabilità che consente di “bucare” le comunicazioni Bluetooth: i dettagli

Si chiama BLURtooth la vulnerabilità scoperta nei protocolli di comunicazione Bluetooth (usata anche dalle app per il tracciamento Covid-19 come la nostra Immuni) che potrebbe avere serie conseguenze per la sicurezza dei dati trasmessi con questa tecnologia. Ecco tutti i dettagli

Pubblicato il 15 Set 2020

Luca Mella

Cyber Security Expert

BLURtooth news analysis

È stata rinominata BLURtooth la vulnerabilità insita all’interno dei protocolli di comunicazione della tecnologia Bluetooth scoperta dalle ricerche condotte da due università europee: la Purdue University e il Politecnico Federale di Losanna (EPFL), istituto estremamente attivo nella ricerca sulle tecnologie wireless a corto raggio e sulle questioni privacy legate alle tecnologie portabili.

Identificata come CVE-2020-15802, BLURtooth sta facendo preoccupare gli esperti di sicurezza di tutto il mondo in quanto si tratta di una vulnerabilità che affligge numerosissimi dispositivi, smartphone inclusi, a prescindere dal modello o dal produttore.

BLURtooth: i rischi nascosti

Benché il Bluetooth sia diventato un tema molto popolare di recente, dopo che la pandemia di coronavirus ha fatto sì che questa tecnologia sia stata identificata come tassello imprescindibile per lo sviluppo delle applicazioni di contact tracing come l’italiana Immuni o la svizzera SwissApp, stiamo pur sempre parlando di una tecnologia che fonda le sue radici ben più lontano.

Infatti, a discapito delle apparenze, il Bluetooth ha più di trent’anni ed ha all’attivo oltre dodici specifiche di protocollo: dapprima fu un canale di comunicazione ed ora è tra i medium abilitanti per i paradigmi della Internet of Things (IoT), delle Personal Area Network (PAN), dello Smart Clothing e non solo.

Un’evoluzione costante nel tempo che ha aumentato negli anni la complessità dei protocolli e delle funzionalità che il Bluetooth mette in campo per sostenere l’innovazione tecnologica e che però, non è esente da rischi di sicurezza.

E la vulnerabilità BLURtooth è l’ultimo concreto esempio di quali rischi nascosti porti con sé questa tecnologia.

La falla individuata dai ricercatori è stata confermata persino dal consorzio che gestisce lo standard tecnologico del Bluetooth, ovvero il Bluetooth Special Interest Group (SIG), che ha rilasciato un bollettino di sicurezza pubblico dove chiarisce che il problema risiede addirittura nelle specifiche di protocollo stesse: tutte quelle comprese tra la Bluetooth 4.2 e la Bluetooth 5.0. Questo implica che un numero enorme di dispositivi prodotti dal 2014 in poi sono interessati dalla problematica di sicurezza provocata dalla vulnerabilità BLURtooth.

La maggiore criticità di questa falla risiede nel fatto che può essere sfruttata da attaccanti che non conoscono a priori alcun codice o chiave utilizzata dalle comunicazioni Bluetooth dei dispositivi che decidono di attaccare. Da questo punto di vista, l’unico requisito è posizionarsi a tiro dei segnali, oppure, più semplicemente in zone trafficate o di passaggio, come stazioni, centri commerciali e luoghi pubblici.

I ricercatori che hanno scoperto BLURtooth hanno prospettato anche una serie di attacchi che possono essere condotti attraverso questa falla, ovvero i “BLUR attacks”, tra i quali anche la possibilità di inserirsi nelle comunicazioni tra i dispositivi, intercettare, alterare e manipolare arbitrariamente i dati scambiati attraverso impersonificazioni e attacchi Man-in-the-Middle (MitM).

I rischi che comportano questo tipo di attacchi non sono banali e per comprenderli dobbiamo sforzarci di capire dove e come utilizziamo la tecnologia Bluetooth, che per sua definizione permette la costruzione di reti e connessioni di prossimità, aspetto che inevitabilmente rimanda alla sfera personale di noi tutti.

Quindi, quali potrebbero essere i rischi associati ad attacchi di questo tipo?

Attraverso il Bluetooth oggigiorno transitano dati molto diversi rispetto a qualche anno fa. Ad esempio, i dati biometrici collezionati dagli smartwatch o dai braccialetti intelligenti, accessori sempre più diffusi e apprezzati da nativi digitali e no. Dati che possono anche essere utilizzati per autenticazioni biometriche, magari attraverso la profilazione del battito cardiaco o di particolari movimenti. Condizione che apre le porte ad una nuova dimensione del tutto inesplorata del furto di identità, che attraverso falle come BLURtooth può raggiungere livelli davvero inattesi.

Oppure, più semplicemente, BLURtooth potrebbe essere abusata per inibire il blocco del nostro smartphone attraverso le funzionalità Smart Lock, ovvero lo sblocco dello schermo in prossimità di dispositivi ritenuti fidati. O ancora intercettare comunicazioni, telefonate, o manipolare messaggi e avvisi.

Insomma, una serie di azioni che dipendono fortemente dagli utilizzi della tecnologia Bluetooth in sé, e che alla luce della sua rinnovata popolarità, dovuta anche al ruolo che ricopre nelle app di tracciamento Covid-19 come Immuni, ed al suo altrettanto centrale ruolo nelle tecnologie IoT per la realizzazione di paradigmi MeshNet, ovvero reti di dispositivi densamente connessi, senza punti di centralizzazione ed estremamente resilienti, non potranno fare altro che amplificarsi, lasciando che quanto immaginiamo oggi si trasformi in concrete azioni di minaccia da parte degli attaccanti di domani.

Diffusione dei dispositivi con Bluetooth (Fonte Bluetooth SIG).

BLURtooth: come funziona

Tecnicamente BLURtooth è una falla all’interno di un meccanismo molto particolare, noto più che altro a chi lavora a stretto contatto con dispositivi IoT che utilizzano la tecnologia Bluetooth: ovvero le funzionalità di generazione di chiavi crittografiche derivate, la Cross-Transport Key Derivation (CTKD).

Prima di affrontare il cosa succede all’interno di quelle routine che gestiscono l’algoritmo di CTKD, è bene soffermarsi su di un aspetto caratteristico degli standard Bluetooth. Le evoluzioni dalla versione 1.0 alla moderna 5.2 sono state accompagnate dall’introduzione di varie specifiche di comunicazione, poi mantenute sia per continuare a supportare i dispositivi hardware più datati, sia per abilitare tipologie di applicazioni non facilmente compatibili con le performance dei nuovi paradigmi “Smart”.

Questo ha fatto sì che all’interno delle specifiche Bluetooth degli ultimi anni, co-esistessero più tecnologie di comunicazione. In particolare, le due interessate da BLURtooth sono:

  • la specifica “Bluetooth BR/EDR”, letteralmente “Basic Rate/Enhanced Data Rate”. Si tratta della specifica più classica, quella a cui tipicamente si pensa quando si parla di Bluetooth, caratterizzata da pairing obbligatorio e che può instaurare canali da oltre 2Mbps, ideali per convogliare audio ad alta qualità;
  • la specifica “Bluetooth LE” (BLE), comunemente referenziata come “Low Energy” ma formalmente identificata dal SIG come “Bluetooth Smart”, tutt’altra cosa rispetto alla precedente e che pur non raggiungendo le bitrate di BR/EDR, gode però di una flessibilità enorme tanto da abilitare le tecnologia Smart Mesh, servizi HTTP Proxy (HPS) nativi per le applicazioni Internet of Things.

Le due specifiche coesistono pacificamente negli standard Bluetooth moderni ed i dispositivi possono decidere se collegarsi con uno di essi, o con entrambi.

Questa flessibilità ha però introdotto un problema di natura pratica: ovvero se lo stesso dispositivo ha necessità in primis di fruire delle funzionalità avanzate “Bluetooth Smart” ed in secondo luogo del canale ad alte prestazioni di “Bluetooth BR/EDR”, deve accoppiarsi due volte proprio per via dell’indipendenza delle due specifiche, prefigurando situazioni poco user-friendly.

Questa frizione è stata però eliminata con l’introduzione di Cross-Transport Key Derivation (CTKD), con il quale, a seguito di un pairing concluso con successo, è possibile generare automaticamente sui due dispositivi una chiave derivata (LK, Link Key), uguale per entrambi, da utilizzare per l’altro canale di comunicazione, BLE o BR/EDR che sia.

È proprio qui che i ricercatori delle due università hanno scovato BLURtooth: individuata la falla nella gestione delle chiavi derivate, sono riusciti a forzare la sovrascrittura o l’indebolimento di una di queste, ad esempio scambiata tramite pairing ordinario, forzando l’attivazione della generazione della chiave derivata dall’altro canale di comunicazione.

Nel loro Proof of Concept, hanno infatti utilizzato il metodo di pairing Just Works, che prevede l’utilizzo di una chiave temporanea (TK) fissa a 0 per i due dispositivi, per modificare la chiave precedentemente scambiata sull’altro canale di comunicazione.

Con questa modalità operativa, i ricercatori sono di fatto riusciti a ridurre la robustezza delle chiavi sull’altro canale o, nel peggiore dei casi, a sovrascrivere le chiavi di autenticazione con chiavi arbitrarie, riuscendo così ad impersonificare e frapporsi all’interno delle comunicazioni Bluetooth protette, accedendo a profili e servizi in altro modo inaccessibili.

Scenario che lascia spazio a rischi che il mondo IoT moderno non permetterà a lungo di ignorare, anche perché nelle sue raccomandazioni, il Bluetooth SIG ha consigliato alle implementazioni Bluetooth vulnerabili di introdurre le restrizioni sulla Cross-Transport Key Derivation incluse negli standard Bluetooth 5.1 e superiori.

Una risoluzione davvero problematica per molti dispositivi, che di fatto richiede nella migliore delle ipotesi un aggiornamento delle componenti core di sistema o del firmware stesso.

Bluetooth BD/EDR Pairing.

Conclusioni

A differenza di tante altre vulnerabilità, BLURtooth non riguarda un prodotto o un dispositivo specifico: interessa una serie di specifiche che sono state e vengono seguite da produttori di software e hardware per la realizzazione delle componenti di comunicazione Bluetooth.

Questo semplice ma sostanziale fatto, unito al contesto ed all’evoluzione del panorama digitale ci deve far riflettere su quanto sia strategica la cybersecurity nel prossimo futuro.

Oggi il Bluetooth è una delle tecnologie che di fatto stanno abilitando l’espansione dei paradigmi digitali moderni come la Internet of Things e le reti MeshNet, paradigmi nei quali sistemi software complessi si interconnettono con dispositivi embedded, sul campo, nelle nostre case e nelle città.

Dispositivi fisici, appunto, dispositivi ai quali l’informatica che conosciamo non è del tutto abituata, e che si portano appresso problematiche tipiche del mondo hardware, che in lontananza ricordano le problematiche che vive l’industria nei sistemi OT, e che richiedono un approccio alla sicurezza più evoluto e differente da quello tradizionale.

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