Nell’attuale contesto di digital transformation in cui il patrimonio informativo delle aziende è esposto ad attacchi informatici sempre più mirati e sofisticati, la parola chiave è consapevolezza: le aziende devono comprendere l’importanza di investire sul fattore umano per migliorare la security awareness aziendale e la consapevolezza del rischio cyber da parte di tutti gli utenti aziendali.
Indice degli argomenti
Security awareness e fattore umano nelle PMI
Esiste una citazione famosissima nel campo informatico che rappresenta l’emblema dell’era 4.0:
“oggi le aziende si dividono in due categorie: quelle che sono state attaccate e lo sanno, e quelle che sono state attaccate e non lo sanno ancora.”
Se molti tipi di cyber attacchi si manifestano immediatamente come accade per i ransomware, altri tendono a rimanere invisibili per poter studiare i sistemi e sferrare l’attacco quando raggiungono la conoscenza completa delle vulnerabilità tecnologiche della propria vittima.
Secondo statistiche, il tempo medio di scoperta (la cosiddetta “finestra di compromissione”) è superiore ai 200 giorni.
Un errore comune soprattutto nel settore delle piccole e medie imprese è quello di pensare di non essere obiettivo di attacchi informatici, di non essere appetibili per la minore esposizione e per il fatturato ridotto.
In realtà, le PMI sono obiettivi facili che garantiscono agli attaccanti un ritorno di investimento sicuro.
Ad oggi i danni subiti a seguito delle attività cybercriminali rappresentano un valore dieci volte superiore rispetto a quello degli attuali investimenti fatti in sicurezza informatica.
Gli investimenti in sicurezza informatica nel nostro Paese sono ancora largamente insufficienti.
A questo punto ci aspetteremo un clima di terrore, un senso profuso di paura che serpeggia tra i responsabili informatici, il panico nel sapere che può capitare a chiunque di noi. E invece non è così e torniamo al concetto di consapevolezza: manca completamente la consapevolezza informatica di quello che un mancato investimento o un’errata implementazione può causare.
Eppure, la storia ci insegna.
Conoscere le cyber minacce: la botnet Mirai
Facciamo un passo indietro di quattro anni, un lasso di tempo che, dal punto di vista tecnologico, rappresenta un abisso. Eppure, la situazione che andiamo adesso a vedere è ancora tristemente attuale.
Il 21 ottobre 2016 Mirai, che è un malware che comanda una botnet IoT, ha infettato circa 500.000 apparecchi in pochi giorni, numero raddoppiato in due settimane. Mirai ha reso indisponibili i siti di molti colossi in numerosi punti in USA ed Europa, colpendo Dyn che è un gestore del servizio di DNS. In pratica i siti finali erano in piena salute ma, non funzionando il servizio di traduzione di nomi in IP, i visitatori non venivano reindirizzati ai siti finali.
Tutto questo perché Mirai ha preso possesso di centinaia di migliaia di oggetti di uso comune come baby monitor, navigatori, telecamere connessi a Internet e facilmente hackerabili usando vocabolari delle password più comuni, comodamente reperibili in rete.
Questi IoT non hanno una configurazione minima di sicurezza: vengono acquistati, collegati con la password di default preimpostata e sono pronti all’uso.
Risultato: si riesce ad entrare nel dispositivo facilmente.
Mirai è un nome che in giapponese vuol dire futuro e mai nome è stato più appropriato: siamo nel 2020 sono passati quattro anni e le variati di Mirai continuano ad esistere e a prendere di mira i dispositivi IOT.
La causa di Mirai dunque qual è stata? La non consapevolezza della tecnologia dell’IoT e l’errore umano.
WannaCry: la minaccia che ha fatto “piangere” il mondo
Andiamo avanti nel tempo. Dal 2016 passiamo al 2017.
A marzo 2017 viene individuata una vulnerabilità informatica dei sistemi operativi Microsoft: EternalBlue. Microsoft rilascia immediatamente una patch per tutti i suoi sistemi. La vulnerabilità è la CVE-2017-0145, definita “Critical” da Microsoft nel Security Bulletin MS17-010 del 14 marzo 2017. Ma per due mesi gli amministratori di sistema non capiscono l’importanza e la gravità e non fanno nulla.
Fino al 12 maggio 2017, quando esplode WannaCry, un malware composto da un exploit e da un ransomware che esegue la cifratura dei file.
Una volta entrato in un computer (tramite e-mail di phishing o chiavetta infetta) di un sistema Windows, WannaCry si propaga in modo automatico agli altri computer sfruttando le condivisioni di rete SMB.
A sottolineare la gravità del malware, il 13 maggio Microsoft ha rilasciato un aggiornamento di sicurezza anche per XP, sistema considerato deprecato e in end of support dall’8 aprile del 2014.
L’attacco ha infettato non solo privati, ma anche compagnie o enti statali come la FedEx, Renault, la spagnola Telefónica, le russe MegaFon e Sberbank, il servizio sanitario inglese National Health Service (NHS) e il Ministero degli Interni russo.
La causa di WannaCry, dunque, qual è stata? La non consapevolezza della tecnologia e l’errore umano.
E andiamo avanti ancora nel tempo.
BlueKeep: la vulnerabilità nell’accesso remoto a Windows
A maggio 2019 viene individuata una vulnerabilità informatica del servizio Remote Desktop Protocol sui sistemi operativi Microsoft. Denominata BlueKeep, si tratta di una falla nei sistemi operativi Microsoft che potrebbe portare ad uno scenario di attacco devastante simile a quello che nel 2017 ha portato alla diffusione di WannaCry.
Ma lo scopo dell’attacco è cambiato: non interessa sfruttare BlueKeep per entrare nei sistemi o arrecare danni, interessa ottenere guadagno sfruttando le capacità elaborative delle macchine per generare delle criptovalute.
Security awareness e fattore umano: serve un cambio culturale
A questo punto, se facciamo un riepilogo di quanto detto, possiamo concludere che sicuramente Mirai e WannaCry hanno in comune una non consapevolezza del rischio informatico causato dall’errore umano.
In questi i casi, la soluzione tecnologica esiste ma la storia ci insegna che non è sufficiente. Per il semplice motivo che è l’uomo che sviluppa le tecnologie ed è l’uomo che le utilizza.
Lo stesso essere umano che quando collega una telecamera si compiace del fatto che è pronta all’uso.
Fin quando esistono utenti che fanno uso non congruo delle tecnologie non serve stratificare altre tecnologie.
A questo punto è bene ricordare una frase di Albert Einstein:
“Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana, ma riguardo l’universo ho ancora dei dubbi”
La chiave è proprio che la sicurezza dipende da noi. E a me piace pensare che l’utente non sia il problema ma una parte essenziale della soluzione. Quindi sull’utente dobbiamo investire con un adeguato processo di security awareness, processo che porta a un aumento della consapevolezza del rischio informatico. Consapevolezza del fatto che negli episodi analizzati mancava totalmente il corretto uso degli strumenti tecnologici.
La security awareness è un cambio culturale che si realizza con un approccio didattico che riproduce situazioni a rischio, simulazioni di attacchi e un’indagine continuativa dei progressi. Gli utenti sono chiamati ad essere consci dei rischi provenienti dalla rete e consapevoli del danno che un loro errato comportamento può portare a livello aziendale.
Se sappiamo cosa stiamo facendo il rischio si abbassa. E solo noi possiamo creare un mondo più sicuro con la consapevolezza dell’utilizzo della tecnologia.