L’anno scorso, iniziando dalla sala della Protomoteca di Roma, passando per il Palazzo Reale di Torino e il Museo di Pietrarsa a Napoli per concludere con un bellissimo incontro con gli studenti al Teatro Argentina, abbiamo celebrato i primi 25 anni del Garante per la Protezione dei Dati Personali.
Sono stati anni intensi che, magari sotto traccia, hanno non solo accompagnato la storia degli italiani ma ne hanno modificato usanze, costumi, abitudini consolidate.
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26 anni di privacy
Da 26 anni, quindi, si parla di Privacy: talvolta a sproposito, talora (ancora) con uno sbuffo ma, grazie all’attività dei Garanti che si sono succeduti nell’ultimo quarto di lustro, sempre più spesso con la consapevolezza che la protezione dei nostri dati personali equivale alla protezione della nostra libertà.
Mi permetto una digressione: nel nostro caso sono personalmente e profondamente convinto del potere simbolico e immaginifico delle parole. Se, infatti, cancellassimo il termine Privacy sostituendolo, sempre, con “personal data protection” e, in Italia, con “protezione dei dati personali”, credo che saremmo molto più popolari e il RGDP diventerebbe più che un Regolamento un prezioso stile di vita.
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Protezione e personale, le parole sono importanti
Parlando di “protezione” e di “personale” la nostra amigdala sarebbe immediatamente colpita da richiami ancestrali tesi alla preservazione della nostra intimità, trasformando così lo sbuffo verso “l‘ennesima regola” in un sospiro verso “la” regola.
Ragion per cui è con orgoglio che, nella scia dei personaggi illustri che hanno disseminato e fatto crescere la consapevolezza della protezione del dato personale, ogni giorno cerchiamo di coltivarla e affinarla con la nostra attività.
Fatta questa premessa, la domanda che mi pongo è : sono passati 25 anni o un secolo? Migliorare la consapevolezza della protezione dei dati nell’era digitale, invero, è un compito estremamente arduo perché significa difendere e preservare i diritti fondamentali nei confronti dei colossi privati della tecnologia, tesi più al business che ai diritti delle persone ma anche, talvolta, nei confronti degli attori pubblici che, spesso in buona fede e nel tentativo di dare risposte veloci ai cittadini, rischiano di perdere di vista il bilanciamento tra diritto e efficienza, tra difesa dei cittadini e invasività nelle loro vite, tra presenza e immanenza nella loro sfera privata.
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Difendere i diritti fondamentali dinanzi alle Big Tech
A tal proposito, mi preme sottolineare la funzione di preservare il diritto alla protezione di dati personali nell’era digitale improntata al “pensiero fuggevole”e alla velocità imposta da sempre nuovi modelli di vita; è indispensabile, a mio avviso, salvaguardare la protezione dei dati personali, il diritto alla nostra intimità giacché è ciò che non muta e non deve mutare lasciandosi inerzialmente trascinare dal vento di un progresso tecnologico, quello dell’era digitale, che non rappresenta una semplice evoluzione ma una vera e propria rivoluzione sociale.
E oltre a questo compito “alto”, di custodi dei dati personali, ci sono le mille e mille questioni di una quotidianità sempre più complessa che vede il RGDP come snodo ineludibile dei di diritti del terzo millennio: dalla realtà virtuale, alla sorveglianza remota estesa quando non di massa, dalle nuove frontiere della medicina, alle smart cities, ai gatekeeper (“nuovi tiranni” identificati nei grandi provider internazionali, coloro che gestiscono l’accesso alla nostra vita digitale) di rifkiniana memoria con le nuove spunte blu di Twitter e Meta.
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Serve un garante ancora più forte, per le generazioni che verranno
Per questi motivi ci vuole un Garante più forte e potenziato nel suo organico, nelle sue intelligenze e trasformato nelle sue competenze, per poter continuare ad essere un’avanguardia e allo stesso tempo un vigile guardiano nella protezione dei diritti.
Ma il compito più arduo è quello di contribuire ad educare e proteggere le nuove generazioni, creando in loro – protagoniste di una nuova era – la coscienza che la tecnologia è bifronte e che debbono crescere imparando a dominarla e non a diventarne succubi inconsapevoli e passivi.
Per tutti i sopraccitati motivi, dopo aver fatto scrivere le mie considerazioni da un chatbot e aver pensato di farle leggere con la voce del mio allenatore preferito (Massimiliano Allegri), ho pensato che fosse meglio, in una visione antropocentrica del diritto, fare da solo senza dimenticare che, concludo con questa riflessione, qualcosa e, non qualcuno, avrebbe potuto sostituirmi.