Il Wall Street Journal ha riportato la notizia che Meta sta studiando una versione tutta europea dei suoi servizi che preveda il pagamento di un abbonamento come alternativa al consenso per la pubblicità targettizzata che, come noto, costituisce il core business dell’azienda di Menlo Park.
La proposta è un tentativo di rendere sostenibile economicamente le conseguenze derivanti dall’adeguamento alle richieste della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e delle Autorità di controllo europee.
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I precedenti
Nel corso degli ultimi due anni, Meta ha visto smantellare l’inquadramento giuridico sulla liceità dei trattamenti condotti dalle proprie piattaforme di social network (Facebook e Instagram, in modo particolare) da parte delle Autorità di controllo europee.
Sebbene la propria difesa fosse riuscita a convincere l’Autorità irlandese circa l’essenzialità della pubblicità personalizzata come parte integrante dell’esperienza offerta ai suoi utenti, l’European Data Protection Board, esercitando i poteri previsti dall’art. 65 del GDPR, ha emanato una decisione vincolante che ha costretto il Garante irlandese (la Data Protection Commission) a seguire le argomentazioni giuridiche delle altre autorità.
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Le diverse posizioni, infatti, hanno trovato una loro armonizzazione attraverso i meccanismi di coerenza che il GDPR prevede per assicurare un’applicazione uniforme del Regolamento in tutto il territorio dell’Unione Europea.
La decisione vincolante dell’EDPB apriva forti dubbi sulla possibilità di ricondurre il trattamento di pubblicità personalizzata alla base giuridica del contratto, lasciando al titolare l’onere, in virtù del principio di accountability, di individuare la condizione di liceità più idonea tra il consenso dell’interessato e il legittimo interesse del titolare del trattamento.
A chiudere il dibattito, lo scorso 4 luglio, è intervenuta la Corte di Giustizia dell’Unione Europea con una pronuncia a chiusura della causa C‑252/21 tra Meta Ptlaforms e l’Autorità Antitrust tedesca.
La sentenza contiene una disamina analitica e molto puntuale delle condizioni di applicabilità delle basi giuridiche del trattamento da parte delle piattaforme di social network in relazione alla pubblicità targettizzata e fuga ogni dubbio interpretativo statuendo e ribadendo la necessità del consenso dell’interessato.
Non solo, la sentenza della Corte di Giustizia ha reso ancora più complessa l’invocazione della base giuridica contrattuale per i titolari del trattamento.
Infatti, la liceità della base giuridica contrattuale potrà essere vagliata dai giudici sotto il doppio profilo della conformità data protection, andando a valutare il rapporto di essenzialità del trattamento in relazione alla fornitura del servizio, alla luce delle ragionevoli aspettative dell’interessato (conformemente all’interpretazione che era stata fornita dalle linee guida dell’EDPB sull’interpretazione dell’art. 6 par. 1 lett. b) GDPR).
La medesima base giuridica potrà essere altresì vagliata sotto il profilo del diritto della concorrenza verificando che l’eventuale inserimento della clausola sia legittimo e che l’adesione del consumatore/utente al servizio sia effettivamente frutto di una ponderazione e condivisione del sinallagma e non di un’imposizione frutto della posizione dominante che la piattaforma gioca sul mercato.
Le conseguenze della decisione della Corte di Giustizia
Alla luce di queste posizioni congiunte, da parte delle Autorità di controllo e della Corte di Giustizia, Meta ha dovuto procedere a modificare l’informativa e a adeguarsi alle interpretazioni emerse, prospettando ai propri utenti un banner per la raccolta del consenso all’installazione dei cookie e gli altri strumenti di tracciamento per la pubblicità personalizzata.
La notizia riportata dal Wall Street Journal lascia supporre che il processo di acquisto dei consensi sia andato meno bene del previsto in un contesto, quale è quello europeo, in cui i cittadini sono più consapevoli dei propri diritti e dell’importanza della protezione dei dati personali.
L’esito di un’alternativa tra sottoscrizione di un abbonamento per una versione senza pubblicità e la prestazione del consenso, dopo tutto, è stata accettata nel settore dell’editoria che, proprio in virtù della maggiore sensibilizzazione degli europei ai temi della protezione dati personali, hanno visto diminuire i ricavi generati dalla pubblicità profilata e hanno iniziato a inserire i c.d. cookie pay wall sulla cui legittimità si sono pronunciate diverse Autorità di controllo.
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La valorizzazione dei dati personali
Le istruttorie aperte dall’Autorità Garante sulle iniziative degli editori italiani sono tuttora in corso, ma riprendendo le linee guida sui cookie e gli altri strumenti di tracciamento dell’Autorità Garante, pubblicate nel 2021, è riportata “l’ipotesi da verificare caso per caso nella quale il titolare del sito offra all’interessato la possibilità di accedere ad un contenuto o a un servizio equivalenti senza prestare il proprio consenso all’installazione e all’uso di cookie o altri strumenti di tracciamento”.
In altre parole, l’alternativa al consenso pare possibile. Tale precisazione sembra richiamare la posizione della Cassazione, in una pronuncia del 2018 su un servizio di newsletter che richiedeva il consenso come forma di remunerazione per il servizio, in un passaggio ricorda che “l’ordinamento non vieta lo scambio di dati personali, me esige tuttavia che tale scambio sia frutto di un consenso pieno ed in nessun modo coartato”.
Il dibattito è di assoluto interesse perché gli editori hanno argomentato sulla necessità di remunerare il lavoro di opera intellettuale dei giornalisti che lavorano nella testata e quindi sottolineando l’importanza dei contenuti creati.
La piattaforma social, invece, ha la propria infrastruttura, le funzionalità, gli algoritmi di funzionamento da remunerare, ma non i contenuti che sono generati dagli utenti e che la piattaforma utilizza per addestrare gli algoritmi (inclusi quelli di targeting). Sarà da verificare se i contenuti degli utenti rientreranno tra i parametri di valutazione della congruità economica dell’abbonamento.
Laddove i dirigenti di Meta decidessero di implementare l’ipotesi uscita sulle pagine del Wall Street Journal, alcuni dei temi su cui si valuterà l’iniziativa potrebbero essere:
- se il consenso può essere considerato veramente libero e, di conseguenza, valido ai sensi dell’art. 7 GDPR, in quanto l’interessato è posto nella condizione di accedere al servizio in modo equivalente senza prestare il consenso al tracciamento per finalità di pubblicità personalizzata;
- se il prezzo di circa 10,00€ al mese (13,00 € per le app per coprire le commissioni degli store) sia considerato equo o frutto di un abuso di posizione dominante della piattaforma nei confronti degli interessati/consumatori, elemento già ipotizzato dalla Corte di Giustizia nella sentenza;
- se i meccanismi di acquisizione del consenso o sottoscrizione dell’abbonamento saranno sufficientemente trasparenti verso gli interessati.
Sullo sfondo, rimangono temi di natura più etica, legati a quanto le piattaforme di social network hanno trasformato il nostro modo di comunicare e relazionarci, quanto le generazioni di nativi digitali, o gli anziani che hanno imparato a sentire meno la solitudine, le comunità che hanno potuto cooperare a distanza, possano fare a meno di queste piattaforme.
Vi è anche il tema, più volte emerso nei dibattiti degli specialisti, su quanto la privacy rischi di diventare un lusso in una società sempre più diseguale e il web un posto meno accessibile.