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Contratto d’acquisto di nomi a dominio: cosa fare se il venditore è un cybersquatter

Può accadere che una società registri un nome a dominio identico o simile ad uno altrui e che lo impieghi per un business online diverso da quello del titolare del marchio; può accadere, poi, che le due aziende si accordino per la cessione della titolarità del dominio in favore del titolare: ma cosa accade se l’acquirente scopre che ha davanti un cybersquatter? Ecco i risvolti legali

Pubblicato il 15 Mag 2020

Annalisa Spedicato

Avvocato, Specializzato in IP, ICT e Privacy

nomi a dominio cybersquatter aspetti legali

Il cybersquatting è la pratica per cui vengono registrati illecitamente nomi a dominio corrispondenti al marchio denominativo altrui con l’intento di rivenderli al titolare del segno stesso a prezzi di gran lunga superiori all’importo che generalmente si paga per la registrazione di un nome a dominio.

Tale prassi può colpire imprese, ma anche personaggi noti: capita spesso, infatti, che ad essere arbitrariamente registrati siano nomi o pseudonimi di personaggi dello spettacolo, della musica, del cinema.

Il cybersquatting non è un fenomeno recente, anzi si potrebbe dire che questa prassi in occidente sia quasi in disuso nella sua forma più classica.

Di cybersquatting si è iniziato parlare agli albori di internet, quando alcune aziende, in molti casi proprio quelle che si occupavano di registrare i nomi a dominio, usavano procedere alla registrazione a proprio nome di un numero rilevante di domain name corrispondenti appunto a marchi denominativi o a nomi di personaggi famosi, per poi rivenderli ai proprietari di tali denominazioni che erano costretti a versare a tali aziende considerevoli somme di denaro rispetto all’effettivo prezzo annuale di un dominio per rientrare in possesso di quella denominazione.

Perché il cybersquatting è vietato

Quello che accadeva in principio, tuttavia, non era considerato una condotta illecita e questo in virtù del criterio su cui si basa la registrazione dei nomi a dominio, il cosiddetto first come first served [i domini seguono l’ordine cronologico di arrivo delle domande di registrazione e non possono essere registrati due domini identici], ma soprattutto perché i nomi a dominio non erano espressamente inclusi tra i segni distintivi e per questo motivo l’inquadramento giuridico del dominio, in principio, ha destato non poche perplessità.

Per lungo tempo, infatti, la giurisprudenza ha ritenuto che la funzione del sito fosse solo quella di individuare un indirizzo elettronico, pertanto si pensava che il nome a dominio fosse privo di qualsiasi valenza distintiva rispetto al soggetto cui lo stesso era attribuito.

Pertanto, se con riferimento ai nomi a dominio corrispondenti al nome di persona altrui si poteva invocare il diritto al nome e dunque contestare, in base al Codice civile, l’impiego del proprio nome chiedendo la cessazione del fatto lesivo a colui che non ne aveva la titolarità, domandando anche il risarcimento in caso di danno, così non era quando il nome a dominio, identico o simile ad un segno distintivo, quale un marchio, veniva registrato da un soggetto diverso dal titolare effettivo di quel marchio.

Occorreva, infatti, attendere che questo venisse eventualmente utilizzato nel concreto dal soggetto che lo aveva registrato con finalità concorrenziali per invocare al più la concorrenza sleale.

In seguito alla sempre maggiore diffusione della rete Internet e all’estensione dell’impiego dei siti web da parte delle imprese, l’iniziale orientamento giurisprudenziale si è però ribaltato, fino a che al nome a dominio è stato fortunatamente riconosciuto il valore distintivo che oggi conosciamo, arrivando ad inserirlo espressamente nel Codice della proprietà industriale (D.lgs. n. 30/2005 e succ. modif.) accanto agli altri segni distintivi.

Così l’art. 12 del C.P.I. oggi vieta di registrare come marchio un segno che, alla data del deposito della domanda, risulti identico o simile, a un segno già noto come ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nome a dominio usato nell’attività economica, o altro segno distintivo adottato da altri, se a causa della identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra l’attività d’impresa da questi esercitata ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è registrato, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni, mentre l’art. 22 che sancisce il principio dell’unitarietà dei segni distintivi, dispone il divieto di adottare anche come nome a dominio di un sito usato nell’attività economica, un segno uguale o simile all’altrui marchio se, a causa dell’identità o dell’affinità tra l’attività di impresa dei titolari di quei segni ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è adottato, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni; tale divieto si estende all’adozione come dominio di un sito usato nell’attività economica di un segno uguale o simile ad un marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio gode di rinomanza qualora l’uso del segno senza giusto motivo consenta di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

In tale ultima disposizione (art. 22 c.p.i.) viene dunque fatta rientrare la pratica del cybersquatting, anche detta domain grabbing (quando il fine è quello di appropriarsi della notorietà del segno) che diventa così ufficialmente una pratica illecita, consistendo appunto nel registrare come dominio un segno altrui, generalmente noto, al fine di arrecare pregiudizio al titolare che non potrà più utilizzarlo nella propria attività (considerando il principio first come first served, in base al quale non possono essere registrati due domini identici), o comunque di trarne un indebito vantaggio, e quindi rivendendo il dominio al titolare del segno che per riacquistarlo dovrà versare al soggetto che lo ha registrato indebitamente, un importo di ingente entità.

L’illiceità della pratica del cybersquatting è dunque oramai accertata e questo sia a livello nazionale, ma anche europeo e potremmo dire in tutti i paesi che hanno sottoscritto la Convenzione di Stoccolma e fanno parte del WIPO (World Intellectual Property Organization).

Eppure, questa condotta illecita è ancora praticata, sebbene in maniera meno frequente rispetto al passato, in particolare nei paesi orientali.

Non è raro infatti che imprenditori occidentali vengano ancora oggi contattati da agenzie cinesi, indiane o più in generale asiatiche, le quali propongono la vendita di nomi a dominio identici o simili al loro marchio, alla loro ditta, denominazione sociale o al loro nome a dominio che, se già registrato dall’imprenditore con le classiche estensioni .it, .com, .de, .fr, .org, gli viene proposto in vendita con le estensioni .cn; .in, e simili, costringendo, in particolare quell’imprenditore che ha interesse ad espandersi nel mercato orientale, ad accettare il “ricatto” di tali agenzie o società di consulenza, firmando un contratto di cessione e versando l’importo impostogli.

Validità del contratto di cessione del dominio quando il cedente è un cybersquatter

Le cose però pare stiano cambiando anche in Oriente. L’Alta Corte di Singapore, infatti, si è recentemente pronunciata su un caso ([2020] SGHC 17) di cybersquatting in cui però ad essere citato in giudizio questa volta non è stato il cybersquatter, come si potrebbe immaginare, bensì l’imprenditore che avrebbe dovuto acquistare dalla società attrice, il dominio identico al marchio denominativo impiegato dalla sua azienda, in quanto la stessa si era resa inadempiente rispetto alla società che le aveva proposto l’acquisto del nome a dominio, accogliendo in prima battuta con favore le trattative e il contratto di cessione, ma senza poi onorare effettivamente il suo impegno di acquisto del dominio.

La società acquirente, un colosso nel settore del ciclismo, in giudizio ha dichiarato di non aver ultimato l’acquisto del dominio, in quanto aveva rilevato che la società venditrice, diversamente da come dapprima aveva fatto credere, nel concreto non impiegava il nome a dominio che aveva messo in vendita nella sua attività d’impresa, ma era solita registrare, in maniera indiscriminata e seriale, domain name identici e simili a marchi noti e a nomi di personaggi famosi per poi speculare sulla loro cessione in danno dei titolari dei marchi.

D’altro canto, la cedente riteneva invece che esistesse tra le parti un accordo vincolante, basato su trattative e su una lettera di offerta che l’acquirente aveva accettato.

L’acquirente aveva scoperto, tra le altre cose, che la venditrice non possedeva nemmeno il nome di dominio in vendita; esso era intestato ad un’altra società, che si occupava di registrazione di nomi a dominio come ente accreditato del Singapore Network Information Centre – l’organismo ufficiale per l’autorizzazione e la regolamentazione della registrazione dei nomi di dominio nel paese asiatico, in cui il titolare della cedente e il fratello possedevano ciascuno il 50% delle azioni.

Questa società, dunque, non aveva acquisito quel dominio al fine di utilizzarlo nella propria attività d’impresa e aveva successivamente deciso di cederlo a terzi.

Su quel dominio la stessa cedente non nutriva alcun interesse di business, se non quello di realizzare un profitto trasferendolo o affittandolo all’azienda titolare del marchio corrispondente, essendo questo il modus operandi abituale per quell’impresa: la società aveva infatti registrato 1.232 nomi a dominio corrispondenti a marchi di aziende terze; tra gli altri nomi, nel 2017, aveva registrato anche “gooogle.com.sg” ed “amyswinehouse.com.sg”; il motivo evidentemente è quello di sfruttare gli utenti di Internet che inavvertitamente sbagliano nel digitare il termine nella barra di ricerca.

Il giudice di Singapore ha rilevato nella sua pronuncia che non esiste una definizione giuridica di cybersquatting nemmeno a livello internazionale, tuttavia, analizzando anche la giurisprudenza occidentale e i documenti del WIPO, ha rilevato la presenza della malafede nell’intento della cedente e il pregiudizio che avrebbe subìto l’impresa acquirente se avesse accolto la richiesta contrattuale.

Quando si accerta dunque che la società che cede il dominio identico o simile al marchio altrui è un cybersquatter, la stessa non può far valere in giudizio la responsabilità precontrattuale [o l’inadempimento contrattuale a seconda dei casi] dell’altra parte se questa non accetta di procedere nell’acquisto del dominio come inizialmente si era impegnata a fare.

Ottenere la riassegnazione del dominio in caso di cybersquatting

Se si ha prova che:

  1. il cedente non ha alcun titolo o legittimo interesse sul dominio registrato, a differenza del cessionario che possiede ad esempio l’omonimo marchio, un altro segno distintivo o il nome e cognome;
  2. sussiste la malafede del cedente, ossia che lo stesso abbia registrato il dominio con la sola intenzione di rivenderlo a terzi a prezzi considerevolmente superiori a quello di acquisto (malafede), ipotesi suffragata dal fatto;
  3. che il cedente non ha mai utilizzato quel dominio nell’ambito della propria attività commerciale;

è possibile agire per chiedere la riassegnazione del nome a dominio.

L’interessato, in tali circostanze, può rivolgersi direttamente alla magistratura oppure, prima di attivare una procedura giudiziaria, tentare la più celere procedura amministrativa o stragiudiziale rivolgendosi ad esperti.

Per i domini con estensione .it, inviando una lettera al Registro (Country Code Top Level Domain .it, Registro del ccTLD “it”), è possibile infatti contestare la registrazione del dominio, chiedendo che la stessa registrazione venga congelata fino alla risoluzione della controversia (questa procedura permette a chi l’ha avviata di esercitare un diritto di prelazione sull’eventuale nuova assegnazione del dominio all’esito della controversia).

Dopo avere aperto una procedura di opposizione si può, in via alternativa all’azione giudiziaria, intraprendere un arbitrato irrituale davanti ad arbitri esperti e chiedere la risoluzione dell’opposizione.

È possibile anche procedere in maniera più celere, avviando direttamente una procedura di riassegnazione del nome a dominio davanti ad un Prestatore del Servizio di risoluzione extragiudiziale delle dispute (PSRD) accreditato dal Registro sempre per i domini .it.

Per le estensioni cosiddette generiche, invece [.aero, .asia, .biz, .cat, .com, .coop, .info, .jobs, .mobi, .museum, .name, .net, .org, .pro, .tel and travel.], e per le nuove estensioni approvate dall’ICANN (New gTLDs), la procedura amministrativa [molto simile a quella descritta innanzi per il .it, ma diversa per alcuni aspetti], si attiva presso l’ICANN, davanti all’Uniform Domain Name Dispute Resolution (UDRP).

Per i domini .eu, infine, la procedura di riassegnazione è gestita dall’Arbitration Center for eu dispute, un organismo indipendente che fa parte della Corte di arbitrato Ceca (ADR CAC).

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